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Sylvia Plath
Sylvia Plath

I versi di una grande poetessa per celebrare l’8 marzo

Per celebrare l’8 maggio 2024 vogliamo ricordare il 60° anniversario della morte di Sylvia Plath, la poetessa scomparsa in circostante drammatiche, quando nella fredda mattina dell’11 febbraio 1963 decide, con una calma che ricorda un’eroina della tragedia greca, di farla finita: chiude le finestre e le porte della casa di Londra; depone pane e latte accanto al letto dei suoi due figli ancora addormentati, spalanca la finestra della loro camera per salvare loro la vita; quindi infila la testa nel forno a gas. Eppure Sylvia ha poco più di trent’anni, essendo nata vicino a Boston nel 1932 da padre tedesco e madre austriaca; è diventata una poetessa di culto per aver conquistato soprattutto il consenso delle giovani generazioni con la sua produzione poetica segnata da un tormentato groviglio di ferite e squilibri.

Intorno a lei nasce una leggenda moderna che ne fanno la vittima della crudeltà maschile, il capro espiatorio di un destino comune a tutte le donne, la convenzionale immaginetta di un’eroina romantica. Al contrario si tratta di una grande poetessa che sfugge alle “etichette” di un femminismo di maniera confezionato a posteriori. Il suo genio poetico non ha nulla in comune con le banali classificazioni della donna gelosa, aggressiva, sofferente, disadattata, tradita dal marito. La purezza dei suoi versi non è limitata da nulla di aneddotico o di superficiale, ma è segnata dalla presenza di un unico, sconvolgente e divorante “Io Mondo” che, come accade per i veri poeti, cattura tutte le sue energie, le sue ispirazioni per cui, nonostante il passare degli anni, la sua figura rimane un’icona femminile che segna la nostra “modernità” con la sua presenza “maledetta”.

Dopo la sua felice giovinezza vissuta a contatto con il mondo letterario di Boston e New York, dove vive anche le sue prime relazioni sentimentali e matura la sua vocazione letteraria, sente il bisogno di evadere da quel mondo per andare a studiare in Inghilterra, dove incontra e sposa il poeta inglese Tom Hughes, dal quale avrà due figli e dal quale sarà abbandonata per un’altra donna, Assia, la moglie del poeta canadese David Wevill, che a sua volta nel 1969 si ucciderà con il gas. Condannato idealmente dalle femministe, Hughes muore nel 1998 senza che gli vengano perdonati i suoi comportamenti con le donne.

Sylvia non passa certamente inosservata, perché è bella, bionda, elegante, alta un metro e settantacinque, ma dentro è una donna estremamente fragile, che è sfuggita a due tentativi di suicidio, che è stata considerata dalla famiglia mentalmente instabile, tanto da essere sottoposta a un umiliante e doloroso ciclo di elettroshock. La giovane poetessa è vittima di un ambiente familiare oppressivo e persecutorio con un padre anaffettivo, prevaricatore, gelosamente e crudelmente innamorato di questa figlia, con una madre invadente che vuole dirigere la sua vita, le sue ambizioni, la sua sessualità. Così la sua esistenza diventa uno spazio tragico e la sua poesia ha poco da spartire con le lotte del mondo femminista, ma che è anche lontana da quel modello di vita proposto dalla perfetta e allora trionfante Barbie.

Sylvia è piuttosto vicina alle grandi eroine della tragedia greca, Elettra, Clitemnestra, Medea; pensa che la sua vita non debba trasformarsi nel sogno modesto e piccolo-borghese della società americana, ma in un “futuro incantato” dove la realtà immanente possa tramutarsi in un mito da trasportare nel mondo perfetto di una poesia governata dalla disciplina del metro, della rima, dell’etimologia, una poesia segnata da una musica perfetta. Per questo oggi possiamo leggere la poesia della Plath come un classico contemporaneo con quei suoi versi che sono insieme luminosi e dolorosi, limpidi e affascinanti, un modo per restare viva nel mondo, nonostante nessuna mano umana o divina sia riuscita a chiudere quel tragico rubinetto del gas che ha posto fine alla sua vita terrena. (AP)

OLMO

Conosco il fondo, dice. Lo conosco come la mia grossa radice:

è quello di cui tu hai paura.

Io non ne ho paura: ci sono stata.

E’ il mare che senti in me,

le sue insoddisfazioni?

O la voce del nulla, che era la tua pazzia?

L’amore è un’ombra.

Come lo insegui con menzogne e pianti

Ascolta: ecco i suoi zoccoli: è corso via, come un cavallo.

Per tutta la notte galopperò così, impetuosamente,

finché la tua testa non sarà una pietra, il tuo cuscino una zolla,

rimandando echi ed echi.

O vuoi che ti porti il suono dei veleni?

Ecco, questa è la pioggia ora, questo grande azzittirsi.

E questo è il suo frutto: bianco-stagno, come arsenico.

Ho patito l’atrocità dei tramonti.

Bruciati fino alla radice

i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro.

Ora mi rompo in pezzi che volano intorno come clave.

Un vento di tale violenza

non tollera neutralità: devo urlare…

Sono abitata da un grido

Di notte esce svolazzando

in cerca, con in suoi uncini, di qualcosa da amare.

Mi terrorizza questa cosa oscura

che dorme in me,

tutto il giorno ne sento il tacito rivoltarsi piumato, la malignità.

Le nuvole passano e si disperdono.

Sono quelli i volti dell’amore, quelle pallide irrecuperabilità?

E’ per questo che agito il mio cuore?

Sylvia Plath

LETTERA D’AMORE

Non è facile spiegare il cambiamento che operasti.

Se adesso sono viva, allora ero morta

benché, come un sasso, non me ne preoccupassi

e me ne stessi dove mi trovavo d’abitudine.

Non ti limitasti a spingermi con il piede, no –

neanche lasciasti che il mio piccolo occhio nudo

si rivolgesse ancora al cielo, senza speranza, certo,

di capire le stelle o l’azzurro.

Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente

camuffato da sasso nero tra sassi neri

nello iato bianco dell’inverno –

come i miei confinanti, senza cavare alcun piacere

dai milioni di guance perfettamente scalpellate

che ad ogni istante s’appoggiavano per sciogliere

la mia guancia di basalto. Si cambiavano in lacrime,

angeli in pianto su nature smorte,

ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.

Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.

Ed io seguitavo a dormire come un dito piegato.

La prima cosa che vidi fu l’aria pura

e le gocce catturate che in guazza si levavano

limpide come spiriti. Attorno tanti sassi

giacevano ottusi, senza espressione.

Io guardavo e non capivo.

Brillavo come scaglie di mica e mi spiegai

per rovesciarmi fuori come un fluido

tra le zampe di un uccello e i gambi delle piante.

Non mi sbagliai. Ti riconobbi immediatamente.

Albero e sasso risplendevano, senz’ombra.

La mia piccola lunghezza come un vetro diventò lucente.

Presi a fiorire come un ramo di marzo:

un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.

Da sasso a nuvola, e così io in salita verso l’alto.

Ora assomiglio a una specie di dio

e galleggio nell’aria nella mia veste d’anima

pura come una lastra di ghiaccio. E un dono.

IO SONO VERTICALE

Ma preferirei essere orizzontale.

Non sono un albero con radici nel suolo

succhiante minerali e amore materno

così da poter brillare di foglie a ogni marzo,

né sono la beltà di un’aiuola

ultra dipinta che susciti gridi di meraviglia,

senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.

Confronto a me, un albero è immortale

e la cima d’un fiore, non alta, ma più clamorosa:

dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,

alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.

Ci passo in mezzo, ma nessuno di loro ne fa caso.

A volte penso che mentre dormo

forse assomiglio a loro nel modo più perfetto-

con i miei pensieri andati in nebbia.

Stare sdraiata è per me più naturale.

Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio,

e sarà utile il giorno che resto sdraiata per sempre:

finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno

tempo per me.

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