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Siccità
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La recensione del film “Siccità” di Paolo Virzì

A quattro anni da Notti magiche, Paolo Virzì torna al cinema con una commedia amara dalle tonalità drammatiche e grottesche: Siccità, presentata fuori concorso alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Surreale e reale, dinamica e tagliente, l’opera è ambientata in una Roma caldissima, dove non piove più da troppo tempo: la città è asfissiante, l’acqua è razionata, è diventato un bene raro e conteso tra i più poveri, il “biondo Tevere” è ormai un letto arido, secco, dove riaffiorano antichi monumenti di epoca romana e dove viaggiano figure solitarie e disperate.

Tanti sono i protagonisti di questa storia, personaggi di diversa estrazione sociale che tribolano per sopravvivere in questa Roma asciutta e distopica (e, alla fine, non così lontana dalla realtà). Dalla dottoressa in crisi al coatto in cerca di lavoro, dall’imprenditrice all’autista al verde, Virzì prende vari soggetti, li tratteggia con precisi dettagli caratteriali (alcuni più originali, altri meno), li mette in parallelo per poi far incrociare e collidere le loro vite. Adulti disillusi e indolenti, alcuni approfittatori e superficiali, altri deboli e pieni di sensi di colpa, e giovani arrabbiati e insoddisfatti, ma anche energici e vitali, compongono l’affresco del più corale dei film del regista livornese.

L’opera rappresenta un mondo (il nostro) desolante, cinico, dove, a prescindere dalla siccità e dalle pandemie, l’unico vero e grande problema rimane sempre l’essere o non essere ricchi: chi è ricco si salva tanto dalla mancanza d’acqua quanto dalle possibili alluvioni (come capiamo, tra le righe, da una precisa battuta del professor Del Vecchio). Le crisi, ambientali o sanitarie è indifferente, acutizzano e sottolineano soltanto le differenze economiche, e per questo il regista cita palesemente Bong Joon-ho all’inizio del film, autore sudcoreano famoso per opere come Parasite e Snowpiercer: un omaggio ad uno dei migliori registi contemporanei, capace di raccontare e criticare la iniquità del mondo con genio ed originalità. Anche Siccità di Virzì è un tentativo di critica della società, un film che, al netto di certe semplificazioni presenti, si distingue nel panorama italiano per il buon tentativo di affrontare una vicenda drammatica, finta ma verosimile, con genuinità. Un lungometraggio che deve molto anche alla fotografia di Luca Bigazzi, piena di atmosfere gialle, desertiche e brucianti, dai colori ocra e sabbia, capaci di stimolare al pubblico la stessa arsura che provano gli sfortunati romani.

Ma in questo film non ci sono solo la fatica e le difficoltà. Ci sono delle punte di umorismo e, soprattutto, c’è anche la speranza nel domani, una speranza difficile e precaria, ma presente: Paolo Virzì intravede una embrionale possibilità di un futuro migliore, come un timido fiore che cerca di sbocciare, come la pianta quasi secca, ma resistente, che una delle protagoniste, Mila, cerca di far sopravvivere nella rovente Roma senza più una goccia d’acqua.

Silvio Gobbi

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