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The Mauritanian
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Recensione: ‘The Mauritanian’, un film di Kevin Macdonald

Mohamedou Ould Slahi, un uomo della Mauritania, viene arrestato pochi mesi dopo l’attentato dell’11 settembre, perché sospettato di essere legato a Osama Bin Laden. Prelevato dal suo paese, è trasferito alla prigione di Guantánamo, dove rimane dal 2002 al 2016. Subisce tutte le possibili torture (privazione del sonno, violenze fisiche e psicologiche, abusi sessuali ecc.) e, stremato, confessa di essere una delle menti dell’attentato, ma l’avvocato difensore Nancy Hollander e la sua associata, Teri Duncan, riescono, grazie ad una lunga indagine a dimostrare la non colpevolezza di Mohamedou e, dopo un percorso pieno di ostacoli, viene ufficialmente riconosciuta l’innocenza dell’uomo e ottiene la libertà.

The Mauritanian, diretto da Kevin Macdonald, racconta questa sconcertante vicenda. Adattamento cinematografico del libro autobiografico “Guantánamo Diary”, il film è un viaggio preciso all’interno di questo abuso di potere istituzionalizzato, capace di privare i propri prigionieri dei fondamentali diritti umani e costituzionali. Macdonald racconta la vicenda con precisione e meticolosità, passo dopo passo, dall’abisso alla risalita, dai dubbi alle certezze: una vicenda amaramente kafkiana e reale, dove la crisi colpisce chiunque, da Mohamedou agli avvocati dell’accusa. Il regista mette da parte la vena artistica per realizzare un film interamente incentrato sul racconto dei fatti, quasi un documentario (sulla scia di The Report, di Scott Z. Burns). Ma la didascalica narrazione è ben bilanciata dalla presenza di attori capaci di entrare efficacemente nei loro panni, come Jodie Foster nel ruolo della Hollander (aggiudicandosi il Golden Globe come “Migliore attrice non protagonista”) e Tahar Rahim nella parte di Mohamedou.

La regia di The Mauritanian è, come scritto, essenziale e ligia al racconto dei fatti, ma azzarda uno stile cinematografico più enfatico ed elaborato nei momenti di maggiore tensione: i disumani interrogatori di Guantánamo. In quelle scene, l’utilizzo del rapporto 4:3 e le riprese concitate, violente e allucinanti, rendono concretamente e ferocemente il senso di dolore provato dalla vittima. Solo in questi momenti l’empatia dello spettatore viene, acutamente, sollecitata: perché la sofferenza non va mai nascosta, e deve essere bene rappresentata. Alternando così i momenti di tensione a quelli di lucida narrazione, il lungometraggio ci ricorda come lo stato di diritto ed i diritti inalienabili siano sempre a rischio, anche per mano di chi propaganda la loro difesa. Le didascalie finali ci sottolineano questo, ci ricordano come ogni amministrazione (tanto repubblicana quanto democratica, tanto di “destra” quanto di “sinistra”) possa rendersi colpevole di metodi abietti, violenti e inaccettabili, giungendo soltanto all’annientamento fisico e psicologico dei sospettati (ricordiamo anche lo scandalo coevo di Abu Ghraib). Riporta una scritta: “Dei 779 detenuti presenti a Guantánamo, solo otto sono stati condannati per reato. Tre di queste condanne sono state rovesciate in appello”; non c’è altro da aggiungere su questi metodi.

Silvio Gobbi

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