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"Favolacce"
"Favolacce"

La recensione: “Favolacce”, film dei fratelli D’Innocenzo

Nella periferia romana vivono varie famiglie. Ad uno sguardo veloce, tutto è nella normalità: i genitori guardano la TV con i figli, i bambini studiano in gruppo e giocano in piscina, gli adulti organizzano cene e feste di compleanno. C’è qualche problema, come sempre: qualcuno è disoccupato, qualche ragazzino ha dei problemi a scuola, ma, tutto sommato, la situazione è “normale”. Tutto questo, però, è una facciata, una grande apparenza. In realtà, i padri di quella periferia sono un branco di falsi, di frustrati, non sanno instaurare un sincero rapporto con i figli, cadendo spesso nella violenza. Le madri, assenti o sottomesse, non accettano la realtà, fanno finta di non vedere e non reagiscono mai. In tutto ciò, i figli (ragazzini delle scuole medie) si chiudono ermeticamente, parlano poco tra di loro e con i propri genitori, incapaci di amarli sinceramente. I giovani si isolano sempre di più nel loro turbato mondo. Così prosegue la vita in questa tetra periferia, dove la violenza cova nel profondo, fino ad arrivare ad un grande punto di rottura.

Favolacce è il nuovo film scritto e diretto dai fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo. La pellicola (disponibile su Amazon Prime Video) ha ottenuto vari premi, il più prestigioso a livello internazionale è l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura al Festival di Berlino 2020. Opera cupa, dal ritmo serrato, ben raccontata: un’immensa favola nera, dove la morte è sempre evocata e presente, dove la vita è soltanto biologica, temporanea, inutile e faticosa. Adulti violenti e ragazzini incapaci di vivere, di provare gioia di alcun tipo. Bambini freddi e silenziosi, ai limiti del patologico: dovrebbero rappresentare il futuro e l’allegria, ma non abbozzano mai un mezzo sorriso spontaneo e sincero. Non sorridono facilmente perché hanno paura di crescere, non vogliono diventare come i loro ipocriti e beceri genitori: i giovani sono spaventati dal futuro, fino ad arrivare ad azioni estreme. Tutta questa meschina comunità è racchiusa in una periferia desolante, peggiore di una prigione, una vera condanna (tema già ampiamente trattato nel cinema, e non solo). I fratelli D’Innocenzo ambientano in questo contesto la loro favola mesta, oscillante tra il gotico ed il realismo, asciutta ed efficace nella narrazione degli eventi: gli autori puntano alla despettacolarizzazione dei fatti, anche dei più tragici, senza intaccare la drammaticità e lo shock degli episodi. In questa favolaccia, c’è tutto il cinema italiano del genere: dal Neorealismo a Pasolini, con qualche punta cinica in stile Ferreri (il professore incarna pienamente questa caratteristica). Una pellicola in buona parte già vista, dai temi noti, ma interessante per il giusto utilizzo del grottesco, dell’alienazione e per il finale tragico: una efficace e sconcertante conclusione per un film che mira, e riesce, ad essere mortifero dal principio alla fine.

Silvio Gobbi

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