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Home | Cultura | La recensione: “Sorry We Missed You”, di Ken Loach
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Sorry We Missed You
Sorry We Missed You

La recensione: “Sorry We Missed You”, di Ken Loach

Pubblicato da Mauro Grespini in Cultura 1,298 Visite

Motti come «padrone del mio destino» e «essere il datore di lavoro di me stesso» sono, ormai da circa trent’anni, abusati nel linguaggio quotidiano: non più subordinati, non più lavoratori alle dipendenze di qualcuno, ma tutti soci autonomi. Non più stipendi, ma parcelle e percentuali. Non più salari, ma quote: con tutte queste belle parole, si crede di essere indipendenti e liberi dalle vecchie vessatorie forme di lavoro, invece si finisce in una nuova catena inesauribile di precarietà e sfruttamento. Con la crisi del 2008, tutto ciò è ulteriormente peggiorato: per chi rimane senza lavoro, ogni possibile occupazione, a prescindere dalla qualità, fa gola («meglio precari che disoccupati» è un altro mantra moderno). Questo accade a Ricky Turner (Kris Hitchen), di Newcastle. Dopo aver cambiato una miriade di lavori, da edile a giardiniere, trova occupazione come corriere per una ditta in franchise: deve consegnare pacchi dalla mattina alla sera. Pur essendo contrattualmente inquadrato come lavoratore autonomo, deve sottostare a regole rigide, orari serratissimi e zero libertà. Sua moglie Abbie (Debbie Hooneywood) lavora come assistente domiciliare e ha dovuto vendere la propria auto per pagare una parte del costo del furgone del marito. I due figli, il buono ma irrequieto adolescente Sebastian (Rhys Stone) e la piccola Liza Jane (Katie Proctor), sentono il peso di questa gravosa situazione, sempre più stressante per la famiglia intera. Questa affiatata famiglia vivrà, sempre di più, le ripercussioni negative dell’occupazione di Ricky.

Sorry We Missed You, diretto da Ken Loach e sceneggiato da Paul Laverty, è un film chiaro, netto e veritiero. La triste situazione di Ricky è intuibile sin dal principio del film: l’inquadratura nera, dove si sente la voce del protagonista al colloquio di lavoro, segna sin da subito il percorso buio in cui egli si sta per infilare (ed è la palese citazione dell’incipit del penultimo film di Loach stesso, Io, Daniel Blake, vincitore a Cannes 2016). Anche nel pieno del colloquio di Ricky con il futuro “socio-capo” Maloney (Ross Brewster), viene evocata l’imminente pena lavorativa del protagonista, tramite il modo in cui la tecnica del campo-controcampo viene utilizzata: Ricky, il socio-minore, inquadrato in primo piano, Maloney, il capo, più distante (anche qui, il rimando è ai colloqui tra Daniel Blake e la scostante impiegata per la richiesta del sussidio: stessa modalità). Le proporzioni tra i due sono volutamente non rispettate, proprio per rimarcare la distanza tra le loro situazioni personali, l’impossibilità di un punto di incontro tra questi due personaggi che, in senso più ampio, rappresentano due categorie lavorative differenti (chi obbedisce e chi comanda, per farla breve). Ma questa volta Ken Loach va oltre: rimane ancorato alla sua idea (sempre dalla parte degli ultimi), ma non affoga nell’ideologia. In un momento di un altro colloquio, Ricky e Maloney vengono entrambi ripresi in primo piano nel campo-controcampo: proprio nel momento in cui il capo spiega a Ricky il perché del suo severo atteggiamento nei confronti dei corrieri sottoposti. Maloney non è fondamentalmente cattivo, è costretto al ruolo di kapò dal sistema in cui si ritrova ad operare: è un capo inflessibile perché deve fare sì che le consegne siano perfette, per soddisfare i manager e le aziende che usufruiscono di quella ditta di corrieri. In quel momento in cui Maloney, freddamente, in maniera naturale e quasi rassegnata, racconta il perché del suo atteggiamento, viene inquadrato in primo piano, proprio come Ricky. Ma questa simmetria di proporzioni non rappresenta la nascita di una vicinanza tra i due, nessuna embrionale forma di solidarietà: è un espediente del regista per far comprendere al pubblico come i due, tutto sommato, seppur in maniera differente, siano entrambi schiavi di uno stesso sistema. Anche se con gradazioni di libertà differenti, con diverse sfumature di potere decisionale, tutti sono sfruttati dal sistema: tanto Ricky, lavoratore zelante, consumato dallo stress e dalle vicissitudini, quanto Maloney, il capo che pretende dai corrieri sempre un ottimo lavoro e non sente scuse. Una grigia e claustrofobica situazione che pervade la vita di ogni personaggio, e la regia di Ken Loach rimarca l’atmosfera: la casa della famiglia Turner, con un preponderante tema grigio, le inquadrature delle strette scale e delle porte delle stanze, evidenziano fortemente la scomoda ed angusta situazione precaria che vivono i protagonisti. Sorry We Missed You è una finestra sul nostro mondo: un mondo fatto di lavori usuranti e senza garanzie, dove gli individui sono sempre più soli, tanto da rischiare di perdere anche i fondamentali legami con la propria famiglia. Un film che non finisce: ha un finale, ma non una conclusione definitiva, proprio perché la situazione dei gig workers (e di tutti i precari in generale) è ben lungi dall’essere risolta. E Ken Loach, con la sua asciuttezza, con la sua tecnica accurata, riesce a dar vita ad un film genuino, necessario, dove la vicenda raccontata è più comune di quanto si possa credere: basta solo aprire gli occhi e cominciare ad ascoltare le tante storie che, troppo spesso, vengono ignorate.

Silvio Gobbi

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recensione cinematografica 2020-01-03
+Mauro Grespini
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