Lazzaro (Adriano Tardiolo) è un giovane buono e semplice. Silenzioso ed ubbidiente. Vive in una comunità contadina mezzadrile letteralmente ferma nel passato, che sopravvive lavorando in piantagioni di tabacco (l’atmosfera ricorda lontanamente L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, 1978). I contadini sono al soldo della marchesa Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi), spietata donna che sfrutta questa povera gente. La signora ha un figlio, il giovane Tancredi (Luca Chikovani), viziato fino al midollo, il quale se ne approfitta della bontà e dell’ingenuità di Lazzaro. Ma un giorno la vita nella comunità muta. A causa del finto rapimento inscenato da Tancredi stesso, i carabinieri giungono al villaggio, venendo così a conoscenza di questa comunità esclusa dal mondo. I contadini vengono spostati dalla campagna alla città, per essere portati alla realtà, nel presente. Tutti tranne Lazzaro, il quale cade da una montagna e nessuno lo trova più. Inaspettatamente, dopo molti anni, Lazzaro si “risveglia”, “risorge” e cammina senza meta, fino ad arrivare alla città dove trova Antonia (Alba Rohrwacher) ed altri suoi ex compaesani, destando l’incredulità di tutti. Il personaggio di Lazzaro è a metà tra un Santo e una figura magica degna di tante leggende e storie contadine. È un essere che rappresenta la bontà, che mira solamente alla serenità degli altri. Con la sua estrema disponibilità e semplicità d’animo, egli fa di tutto per rendere felici le persone: lo fa perché è la sua natura. Egli è un essere magico, fuori dal tempo e dai luoghi, portatore di una bontà sconosciuta oggi più che mai, malvista e disprezzata, intollerabile per questo mondo. Lazzaro felice di Alice Rohrwacher (premiato come Miglior Sceneggiatura al recente Festival di Cannes 2018), è un’opera dal contenuto e dalla struttura rischiosa, elaborata ed interessante, con un folto insieme di temi e personaggi. Questo film è composto da vari aspetti, ma la costruzione realizzata dalla regista/sceneggiatrice ha fatto sì che ci fosse un’unione armonica tra le varie componenti (anche se con qualche sbavatura, in certi casi): le condizioni dei contadini; la situazione dei poveri (d’oggi) delle città; la figura mitica di Lazzaro; le contraddizioni della modernità e l’ambiguità di ogni personaggio, buono e cattivo al tempo stesso (tranne Lazzaro, il quale è puramente buono, senza alcuna ombra). Il pregio di questa pellicola è quello di aver cercato di armonizzare tutti questi temi, magari con qualche leggera lungaggine, ma tutto sommato il lavoro scorre gradevolmente. Il film parte con la storica impostazione dicotomica: contadini “santi” in quanto sfruttati e padroni “malvagi” in quanto sfruttatori. Poi, dal secondo tempo in poi, tanto più ci avviciniamo al “nostro tempo”, tanto più questa divisione sparisce: nessuno è più puramente buono. Non si può trovare una parte buona ed una malvagia, specialmente quando la storia passa dalla campagna alla città. L’autrice, con questo film, vuole dimostrarci che la condizione degli ultimi è rimasta sostanzialmente immutata: chi era ultimo una volta, nelle campagne, lo è ancora oggi, ridotto alle piccole truffe e alla povertà nelle città. Ma in aggiunta a ciò, la Rohrwacher vuole inoltre dirci che, nei giorni nostri, buoni e cattivi non esistono più. Non ci sono più sfruttati e sfruttatori divisi in maniera netta. Nella comunità, la marchesa sfruttava i contadini: le parti erano bene definite. Oggi invece, nelle città, il potere è una ruota che gira: prima o poi si diventa deboli, a turno. Ciò è ben dimostrabile nella figura di Tancredi adulto (Tommaso Ragno) che Lazzaro incontra in città: egli ormai è invecchiato, è un ricco decaduto, mangiato dai debiti che ha contratto con le banche. In questo mondo confuso, dove non c’è più chiarezza in nulla, Lazzaro, il “risorto”, colui che rappresenta la bontà stessa, è giunto ad un’epoca dove tutto è inutile: il mondo, da duro che era, ora è diventato totalmente spietato e più arduo di prima. La bontà del ragazzo, viatico per le fatiche dei contadini, non ha più spazio nel mondo moderno, visto dalla regista come un’occasione mancata di realizzazione di giustizia. Gli agognati miglioramenti sociali degli ultimi sono soltanto parole prive di significato e di effettività e, quindi, la bontà di Lazzaro è divenuta superflua in questo mondo: essa è incomprensibile, malvista e perfino disprezzata, e non ha più motivo né la forza di (r)esistere.
Silvio Gobbi