Il 22 novembre 2017, l’associazione culturale settempedana “La Zattera”, in collaborazione con il “Cinema Teatro San Paolo”, ha proiettato, presso la sala Cinema Italia, il film del 1971 Sacco e Vanzetti, un capolavoro del cinema storico-sociale, del maestro del cinema italiano Giuliano Montaldo (classe 1930, noto per film come Giordano Bruno, L’Agnese va a morire, Il giocattolo e molti altri).
La storia di Nicola Sacco (1891-1927) e Bartolomeo Vanzetti (1888-1927) è molto conosciuta. I due anarchici italiani emigrarono negli Stati Uniti nei primi anni del Novecento, ma nel 1920 vennero accusati, ingiustamente, di rapina e omicidio, e furono condannati, nel 1927, alla sedia elettrica. L’accusa imbastì un processo farsa, cavalcando l’onda della politica xenofoba e liberticida del ministro della Giustizia statunitense Alexander Mitchell Palmer (1872-1936), volta a reprimere ogni forma di protesta e ad arginare i movimenti sindacali, radicali e anarchici, i quali cominciavano ad emergere sempre maggiormente nella società americana. I due italiani, essendo anarchici, furono le vittime perfette di tale politica.
Il film in questione è costruito in maniera egregia. Montaldo utilizza la cinepresa per realizzare un lavoro a metà tra il documentario e il film drammatico: l’autore riesce a raccontare puntualmente la vicenda giudiziaria dei due sfortunati, senza perdere il ritmo della narrazione, dove pathos e descrizione della realtà sono dosate nella giusta maniera. Il tutto è incorniciato dalla semplice, ma toccante, melodia di Ennio Morricone e dalla litania cantata da Joan Baez. L’opera è un tipico film politico (un genere caratteristico degli anni Settanta, oggi praticamente sparito in Italia), ma senza eccedere nell’elogio dell’ideologia, rimanendo ben ancorato alla realtà dei fatti. Il regista riesce a far immedesimare lo spettatore con la storia dei due anarchici, senza mai scadere in un’eccessiva rappresentazione intima/psicologica dei soggetti né in una pedante rappresentazione del contesto politico-sociale (questo lato realistico/documentaristico è ottenuto grazie alle scene documentarie, ricostruite in bianco e nero, e anche grazie all’utilizzo dello zoom, una tecnica quasi completamente abbandonata dal cinema contemporaneo, molto frequente nei documentari e nei collegamenti TV in diretta). In quest’opera è sottolineato, fin da subito, l’esito tragico della vicenda: le scene iniziali, girate in bianco e nero, delle rappresaglie della polizia presso i circoli italiani del lavoro, sono la spia del triste epilogo dei due protagonisti. L’impossibilità di un ribaltamento dell’esito finale è chiaro anche nell’incontro, per chiedere la grazia per i due anarchici, tra l’avvocato della difesa, William Thompson, ed il governatore del Massachusetts. In un breve frangente, i due soggetti sono, in maniera alternata, inquadrati di profilo. Quando si vede l’avvocato, in secondo piano c’è la statua di un’aquila, quando si vede il governatore, invece, in secondo piano c’è la bandiera degli USA. L’aquila rappresenta il lato rapace e feroce dello Stato americano, invece la bandiera è il lato istituzionale e “giusto” della nazione che il governatore rappresenta: il destino dei due italiani è quello di perire sotto gli artigli dell’aquila che si nasconde dietro la bandiera americana, determinata ad annientare ogni individuo non conforme al modello dominante. E i due anarchici morirono proprio a causa della loro ideologia differente, dalla quale non abiurarono mai (certamente ha pesato il fatto di essere di origine italiana, ma il vero motivo della loro condanna fu politico e non etnico, come lo sviluppo della vicenda dimostra). Gli attori che interpretano i protagonisti, Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla, sono entrambi perfetti: entrano pienamente nei propri ruoli, senza che uno rubi la visibilità all’altro, calzando precisamente nell’intera costruzione filmica, con un’interpretazione che è rimasta nella storia del cinema mondiale.
Sacco e Vanzetti è un’opera coraggiosa, necessaria per il cinema d’oggi, perché è un valido esempio di come si possa utilizzare l’arte come mezzo per denunciare, in maniera efficace, i lati oscuri del mondo in cui viviamo: un cinema che non ha paura di rappresentare la realtà per quella che è, che riesce a rifuggire dalla noia didascalica e, al tempo stesso, non scade nell’eccessiva rappresentazione intima dei personaggi. È la testimonianza di un cinema quasi completamente sparito dal nostro mondo Occidentale, che ormai manca spesso di audacia (a parte il film Hunger dell’inglese Steve McQueen o I, Daniel Blake di Ken Loach, dobbiamo andare in Oriente se vogliamo trovare un valido “cinema della realtà”, come, ad esempio, i film iraniani Taxi Teheran e Una separazione, rispettivamente di Jafar Panahi e Asghar Farhadi). Ancora oggi, qui in Occidente, ci sono molte storie di soprusi e di violenza che aspettano degli autori pronti per rappresentarle. Montaldo, come Rossellini, Pasolini, Alberto Grifi, Claudio Caligari e altri registi, è riuscito a produrre un cinema capace di utilizzare se stesso come mezzo per poter cambiare la realtà dei fatti denunciandola: un cinema che mostra allo spettatore non ciò che vuole vedere, ma ciò di cui ha bisogno.
Silvio Gobbi