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Il film vincitore agli Oscar: “Nomadland”, di Chloé Zhao

Fern ha perso il marito e anche il lavoro. Senza sussidi, né soldi da parte, né possibilità di trovare un impiego stabile, decide di partire e viaggiare lungo gli Usa, vivendo di quei lavori che trova occasionalmente: qualche mese come operaia da Amazon, poi addetta alle pulizie in un camping, successivamente cameriera, qualsiasi cosa praticamente. Tutto ciò mentre viaggia, senza mai fermarsi: il furgoncino diventa la sua casa, dove dorme e vive. Lungo il suo percorso, incontra tante persone con esperienze simili alla sua: donne e uomini scartati dalla società, buttati fuori o volutamente usciti dal mercato, immersi in questa vita raminga, alla ricerca di una stabilità che sta nel movimento stesso, nel non fermarsi mai.

Nomadland è il film della regista Chloé Zhao, tratto dal libro omonimo della giornalista Jessica Bruder. L’opera di Zhao ha collezionato vari premi importanti, tra i quali: “Leone d’oro al miglior film” alla Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia; “Miglior film drammatico” e “Miglior regista” ai Golden Globe e, recentemente, “Miglior film”, “Miglior regista” e “Migliore attrice protagonista” (Frances McDormand) all’ultima edizione dei premi Oscar. Il film è uscito lo scorso 29 aprile nelle sale cinematografiche, e, dal 30 dello stesso mese, è disponibile sulla piattaforma Disney+.

Il lungometraggio è basato sulla ricerca senza tregua, sull’impossibilità di stabilità (voluta e non) da parte della protagonista e di tutti coloro che la circondano. Una grande comunità nomade, silenziosa e massiccia, in perenne movimento, ricca di storie, ricordi, sofferenze e speranze labili, forse irrealizzabili, presenti come fantasmi che cercano di prendere corpo. Chloé Zhao adotta un registro lento, molto flemmatico (anche troppo in certi punti), che indugia sui protagonisti e sui paesaggi: meravigliosi luoghi naturali, vallate e montagne, neve e sole, dove le anime inquiete albergano, vivendo una fuga (in parte volontaria, in parte inevitabile) dalla monotonia della “vita stabile”.

In Nomadland il pionierismo, la “ricerca dell’oro” della vecchia America è del tutto sparita: non ci si può più smarrire durante un viaggio, ma si viaggia proprio perché si è già smarriti, desolati, senza più possibilità di mettere radici. Non c’è più nulla da conquistare, ma si può soltanto fuggire. Scappare dai ricordi della vecchia vita con il defunto marito, come per Fern, o per non farsi imprigionare da una brutta malattia, come fa Swankie. Possono fuggire, ma i problemi continueranno a inseguirli, nascosti dietro le stupende catene montuose che si vedono lungo la strada. Fern non può più tornare a vivere sotto un tetto, e, seppur viaggiando, non riesce a staccarsi dai ricordi: è smarrita, come tutti coloro che incontra, passando da una piazzola all’altra. Un popolo di viaggiatori isolati, persi e senza nessuna bussola: l’unico aspetto appagante è la natura, stupenda nella sua interezza, nella sua purezza, caratteristiche che i nostri nomadi agognano, ma che possono soltanto sognare e mai raggiungere. E allora, tanto vale partire perennemente, fino alla morte, dire «ci vediamo lungo la strada» a chi incontrano durante una sosta e peregrinare da soli, fino al prossimo fugace incontro. Come fa Fern, ormai ingabbiata nelle sue quattro ruote, senza nessun obiettivo, se non la fuga da tutto: un’evasione senza freni, ma che, in realtà, è la nuova prigione dalla quale non può più uscire.

Silvio Gobbi

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