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“What Did Jack Do”: il corto di David Lynch su Netflix

Diciassette minuti scarsi. Così poco basta a David Lynch per tirare fuori un piccolo gioiello dei suoi. C’è chi riempie ore ed ore di pellicola senza dire nulla e chi, con neanche venti minuti, riesce a realizzare un mondo surreale, visionario ed essenziale, pieno di interrogativi: per ottenere ciò, l’autore utilizza soltanto una stanza, un tavolino, due sedie, una piccola finestra, caffè ed una scimmia, di nome Jack, sospettata di omicidio. Lynch impersona il detective che interroga la bestia per farle confessare il delitto di cui è incolpata. Un dialogo assurdo e serrato, un botta e risposta che vacilla tra il comprensibile e l’inafferrabile. Lo spettatore si addentra in una cupa ed intrigante vicenda: più si ascolta l’interrogatorio, più si vuole andare avanti con questa semplice, ma sfumata, storia. Inizialmente, le prime battute sembrano sconnesse: ci si domanda “Ma perché accade ciò? Cosa significa? Dove andrà a parare?”, ma alla fine si approda ad un finale compiuto e aperto al tempo stesso, come Lynch ci ha insegnato in cinquant’anni di cinema.

In questo corto, What Did Jack Do, da pochi giorni approdato su Netflix, il regista statunitense riprende tutte le caratteristiche che lo hanno reso celebre e condensa l’intera sua visione in pochissimi minuti. L’atmosfera in bianco e nero è la stessa presente nella terza stagione di Twin Peaks: ricorda, per esempio, l’episodio in cui l’agente Gordon Cole sogna Monica Bellucci. In What Did Jack Do, il regista utilizza principalmente la tecnica del campo-controcampo tra il detective e l’animale: un confronto tra Lynch, regista, e la scimmia, la sua creatura. La scimmia parla, risponde con bocca e voce simili a quelle del regista stesso. Il detective non sta semplicemente interrogando un sospettato, ma è proprio l’autore che interroga la sua opera, la sua arte, e lei risponde al suo creatore, tramite la sua bocca, con rabbia, frasi evasive, cercando di essere il più possibile inafferrabile. Tramite questa storia “semplice”, Lynch esplica il suo rapporto con le proprie creazioni: un’inesauribile ricerca di risposte dell’artista dalle proprie opere. Un film, un quadro, per lui non sono mai terminati: non saranno mai del tutto afferrabili e vanno quindi continuamente interrogati per cercare di inchiodarli al proprio volere. Ma ciò è impossibile: le idee, una volta sviluppate, fuggono via da chi le ha generate e prendono vita autonoma, questa è l’idea. In questo corto dalle forti influenze pittoriche di Lynch stesso e di Francis Bacon, il regista cerca di afferrare la propria opera, assassina e fuggitiva per amore (con tanto di canzone che ricorda «Sycamore Trees» cantata da Jimmy Scott nella puntata finale della seconda stagione di Twin Peaks). Lynch rincorre Jack come ha sempre fatto per tutta la sua vita con le sue opere: dare loro il massimo della autonomia, lasciarle sviluppare più che possono e poi star loro dietro per tentare di afferrarle e farle proprie. Ancora una volta, David Lynch conferma il suo essere fuori dal comune.

Silvio Gobbi

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