L’ultimo film di Paolo Genovese The Place, uscito da poco al cinema (ispirato alla serie televisiva americana The Booth at the End, 2010-12, ideata da Christopher Kubasik) è un’opera cinematografica che riesce a distinguersi dalla massa dei film italiani contemporanei. L’intera pellicola è incentrata sulla figura enigmatica di un misterioso uomo sconosciuto (Valerio Mastandrea), il quale passa le sue giornate seduto al tavolo di un bar. Egli ha un inspiegabile dono: riesce a far avverare i desideri delle persone, a patto che eseguano un determinato compito, dettato dopo aver consultato la propria agenda (spesso il dovere preteso è molto estremo, come chiedere ad un uomo di uccidere una bambina per far sì che suo figlio guarisca dal cancro). L’intero film è girato all’interno del bar, non esistono scene ambientate in altri luoghi: lo spettatore ricostruisce le vite e le vicende dei personaggi solo grazie ai colloqui che loro hanno con l’uomo misterioso. Il regista utilizza quasi esclusivamente primi e primissimi piani ed adopera frequentemente la tecnica del campo-controcampo (essendo tutto il lavoro incentrato sui dialoghi). Il lungometraggio è pervaso da una costante atmosfera grigia, la quale dona all’ambientazione un carattere particolare, indefinibile: la storia potrebbe benissimo essere rappresentata in una qualsiasi grande città del mondo, dato che non ci sono particolari identificazioni urbanistiche e geografiche. Con quest’opera corale, realizzata in uno spazio chiuso (già con Perfetti sconosciuti, nel 2016, l’autore aveva prodotto un ottimo lavoro corale ambientato in un unico spazio), Paolo Genovese ha prodotto una pellicola atipica nel panorama nostrano, apparentemente fredda e grigia, ma in realtà piena di forza. Il regista ha saputo addensare, con bravura, le vicende dei personaggi nel momento della loro narrazione dei fatti allo sconosciuto, senza rappresentare mai le azioni: è riuscito a mantenere, dall’inizio alla fine, un ritmo sostenuto, grazie ad un’intelligente costruzione dei dialoghi. Valerio Mastandrea, con un viso da antieroe, scavato e barbuto, dalle espressioni ponderate e sicuro di sé, rappresenta un’entità misteriosa, che si colloca tra l’umano e il sovrannaturale. Lui parla ai personaggi, chiede loro i “dettagli” di come si sentono nell’eseguire il compito affidato e pone domande intime. Quindi, che cos’è egli, se non una metafora della nostra coscienza? Quando siamo in momenti di crisi e cerchiamo di uscirne in tutti i modi, spesso giungiamo a delle decisioni assurde che ci sembrano le uniche fattibili. Diventiamo sordi ad ogni possibile alternativa, chiudendoci nella nostra visione, e perseguiamo un obiettivo seguendo un’unica strada, non prestando attenzione se sia giusta o sbagliata nei confronti nostri e degli altri. Ma, pur perseguendo i nostri obiettivi, capita lo stesso di porci delle domande su come ci sentiamo e se stiamo facendo la cosa giusta. E tutto ciò che accade nella vita dei nostri giorni nella nostra testa, qui nel film viene rappresentato attraverso il personaggio di Mastandrea, il quale, come la nostra coscienza, dà delle direttive precise (anche estreme), ma continuamente ci fa domandare se stiamo facendo la cosa giusta o no. Nel film, come nella vita reale, c’è chi arriva fino in fondo al compito e chi invece lascia perdere la soluzione proposta, grazie ad un “esame di coscienza”. Il regista ha ben rappresentato come le scelte della nostra vita possono influenzare l’esistenza altrui, dimostrando che le nostre decisioni non ci appartengono mai completamente: provengono dalla nostra mente, ma sono condizionate da fattori esterni e, a loro volta, plasmano la vita e le scelte degli altri. L’autore vuole far capire, ad ognuno di noi, che ci sono dei limiti da rispettare nell’agire per i nostri obiettivi, anche se ci possono sembrare i più importanti del mondo.
Silvio Gobbi