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La Beat Generation tra letteratura e cinema

«Moloch il cui amore è petrolio e pietra senza fine! Moloch la cui anima è elettricità e banche! […] Moloch il cui nome è Mente! […] Moloch che mi è entrato presto nell’anima! Moloch in cui io sono una coscienza senza un corpo! Moloch che col terrore mi ha tolto alla mia estasi naturale! Moloch che io abbandono! Destatevi in Moloch! Luce sgorga a fiotti dal cielo!». Nel 2010, i registi Rob Epstein e Jeffrey Friedman portarono sullo schermo questi, ed altri, versi di Allen Ginsberg, nel film biografico Urlo. Un’opera che racconta le vicende giudiziarie del poeta più noto della Beat Generation: nel 1956, il suo poema Howl suscitò enorme scandalo per i contenuti fuori dai canoni del tempo e venne accusato di vilipendio ed oltraggio al pudore. Il film alterna il racconto biografico alle trasposizioni animate dei versi del poeta: disegni capaci di dare vita alle evocative immagini presenti nella poesia di Ginsberg. Ma lui è stato uno dei tanti beat, non l’unico. Non una vera e propria scuola, ma un gruppo di giovani statunitensi gravitanti intorno all’ambiente newyorkese. Poeti, prosatori, saggisti, uniti da passioni letterarie in comune (come Walt Whitman e la sua poetica anticonvenzionale e scardinata, i testi di James Joyce e Marcel Proust), da una condivisa visione del mondo statunitense e occidentale: un grande cammino destinato al decadimento indecifrabile ed irrefrenabile. Questi ragazzi venivano definiti da Ginsberg come «[…] le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude, strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia». Ed infatti, la loro vita si divideva tra alcol, droghe, tante letture e concerti di musica jazz. Tra di loro ricordiamo il coraggioso editore Lawrence Ferlinghetti, William S. Burroughs, Gregory Corso e Jack Kerouac. Quest’ultimo, viaggiatore irrefrenabile: la sua inquietudine si è tradotta in chilometri percorsi lungo tutti gli States, gomme forate e scarpe consumate. Molte avventure lungo il tragitto, tanti i pericoli ed i rischi affrontati, ed una moltitudine di donne che costellano una vita sentimentale frammentata e inconciliabile. Dal suo libro Sulla strada, è stato tratto il film On the Road, diretto da Walter Salles (2012). Un’opera che trasporta sullo schermo le storie di quel viaggio senza meta intrapreso dal giovane Kerouac, un labirintico cammino di un ragazzo intento a diventare uno scrittore, alla ricerca del proprio linguaggio narrativo e di un inafferrabile senso di esistenza. Sax, sbronze, sesso, storie incredibili e vere, il protagonista è un ragazzo perduto in un presente moribondo, un’America affossata dalle occasioni sprecate, una nazione che protegge e coltiva un profondo bigottismo conformista. Il film di Salles tenta di rappresentare visivamente le pagine e le sensazioni del libro, anche se non è semplice tradurre in immagini un prosatore di quel genere, definito da Henry Miller (nella prefazione di un altro romanzo di Kerouac, I sotterranei) colui che «[…] ha violentato a tal punto la nostra immacolata prosa, che essa non potrà più rifarsi una verginità. Appassionato cultore della lingua, Kerouac sa come usarla. Da virtuoso nato qual è, egli si compiace di sfidare le leggi e le convenzioni dell’espressione letteraria ricorrendo ad una comunicazione rattratta scabra liberissima tra scrittore e lettore». La linearità delle vicende dei suoi romanzi è spezzata da digressioni e improvvisazioni virtuosistiche, come un concitato concerto jazz su carta. I personaggi rispecchiano lo stile narrativo complesso e sofferente. Come dice Mardou, la donna, l’amante del protagonista Leo de I sotterranei: «Siamo come due animali che fuggono in una tana scura calda e viviamo soli le nostre pene». E queste pene sono tanto nei contenuti quanto nella narrazione che immerge il lettore in un intimo e radicato senso di solitudine. Ma non solo Mardou e Leo sono soli: tutti i protagonisti della letteratura beat vivono un senso di abbandono. Un isolamento che sfocia nella morte, nell’alcol, nella forsennata ricerca di non si sa cosa, o nella droga, come fece William S. Burroughs. Entrato nel mondo degli stupefacenti per “noia”, con una curiosità quasi antropologica (materia in cui si laureò), provò di tutto per lungo tempo. Dalle sue allucinazioni derivano le immagini dei suoi scritti viscerali, parossistici, a tratti confusionari, dove narrazione e delirio si imprimono sulla carta. Tra i suoi testi più conosciuti, Pasto nudo (1959), libro dal quale è tratto il film Naked Lunch, realizzato dal noto regista americano David Cronenberg, nel 1991. Autore di varie pellicole incentrate sul body horror (un genere di orrore dove la trasformazione spaventosa dei corpi ha un peso fondamentale), laureato in letteratura, Cronenberg è sempre stato affascinato dagli scritti di Burroughs. Non si è fatto sfuggire l’occasione di girare un film sul suo libro più famoso, e tra i più difficili da mandar giù. Ed il regista riesce a rendere più lineare il soggetto di Burroughs, prendendo il centrale delirio della storia per ripulirlo, senza risparmiarci i mostruosi insetti parlanti e le figure putrescenti e aliene che appaiono nel testo. Nella pellicola, i due piani della vicenda, il delirio paranoide e la narrazione dei fatti, emergono senza che l’uno offuschi l’altro, a differenza del libro, dove le allucinazioni si mescolano alla realtà in maniera più intricata, senza preavviso, come un pugno inaspettato, capace di accartocciare lo stomaco e di stordire il lettore. L’imprevisto parossistico è il fulcro della scrittura di Burroughs, insieme alla sua «intensità surrealista» (Fernanda Pivano): un regista come Cronenberg è perfetto per questo genere di letteratura, e potrebbe, senza problemi, trasportare su pellicola i romanzi di tutti gli altri autori beat. Questi ragazzi metaforicamente senza padre, discendenti intellettuali dei “solitari americani” studiati e tradotti da Gianni Celati, eternamente giovani, anche se ormai tutti defunti, pienamente consapevoli della depravazione del mondo in cui vivono, dove ogni cambiamento è vano, forse impossibile. Perché la realtà si mescola col desiderio, con la delusione e le speranze puerili, dove nulla è concretizzabile, perché «Ricordi e sogni si intersecano in questo pazzo universo» (Jack Kerouac), e solo questo rimane: ricordi di esperienze che potevano andare diversamente e sogni che non possono prendere corpo.

Silvio Gobbi

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