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Il cinema ambientato tra le mura domestiche

La luce di certe giornate primaverili ricorda quella del dipinto Giovane uomo alla finestra (Gustave Caillebotte, 1875): un chiarore terso avvolge la strada fissata dall’uomo. Il giovane signore mira le vie desolate: la giornata è bella, ma rimane in casa. Un uomo di buona famiglia: si vede dal vestiario, informale ma non sciatto, dal luogo in cui vive (un centro città tranquillo), e dalla elegante poltrona che scorgiamo all’angolo della tela. Chiuso dentro casa, di buona estrazione sociale, egli sembra uno dei protagonisti de L’angelo sterminatore (Luis Buñuel, 1962). Ricchi, ben curati e bloccati, per non si sa quale motivo, in una stanza: non riescono ad uscire. Una vicenda surreale, capace di mettere in crisi le “migliori” persone. L’irreale situazione di cattività porta questa élite di uomini e donne alla follia. Le cavie di Buñuel, rinchiuse tra quattro mura, non imparano a convivere: strabordano di intolleranza e di rabbia. La casa diventa un catalizzatore: accelera e mostra le bassezze raggiungibili dagli uomini, con liti che si susseguono senza sosta. Le colpe rimbalzano da una parte all’altra, all’infinito, come infinita è la discussione tra le due coppie di genitori di Carnage (Roman Polański, 2011). Come gli esseri di Buñuel, i quattro protagonisti di Polański non lasciano la casa in cui si trovano. Non sono intrappolati per via di un’inspiegabile e surreale magia, ma sono incollati dalla ferocia dei loro battibecchi e dal desiderio di prevalere sull’altro: una storia semplice, resa da Polański un dramma familiare retto da un astuto scambio di colpe ed insulti tra un individuo e l’altro. Ancora una volta, la casa rappresenta una gabbia che contiene degli animali incapaci di comunicare e capirsi, buoni solo a tirare fuori il peggio covato nel loro profondo: lo spazio limitato non accorcia le distanze intime, ma amplifica i rancori. La casa è il luogo dove esplode tutto ciò che non si ha il coraggio di dire, come nella commedia amara Perfetti sconosciuti (Paolo Genovese, 2016): un altro ritratto delle ipocrisie coniugali. Non solo scontri, ma anche incontri unici tra le mura domestiche, come quello tra Antonietta e Gabriele in Una giornata particolare (Ettore Scola, 1977). Il 6 maggio 1938, giornata della visita di Hitler a Roma, donna Antonietta resta a casa perdendosi la parata. L’intero palazzo si svuota, rimangono solo lei e Gabriele, un vicino con cui non ha mai parlato. I due personaggi sono opposti: lei, fiduciosa nel regime, lui, omosessuale e prossimo al confino. Passano la giornata insieme: si scontrano per le opposte idee e orientamenti ma, alla fine, si amano sia mentalmente che fisicamente. Scola ambienta nell’Italia degli anni Trenta (il Paese dei maestri e dei diplomi, come scriveva Carlo Levi) una delle vicende più originali nel panorama cinematografico italiano, dove i dettagli degli ambienti si fondono con la ricchezza dei due protagonisti delineati (oggetti, mobilio e stampe: ogni sfumatura arricchisce i caratteri dell’uomo e della donna). In questo dramma, le quattro mura incubano un’evoluzione emotiva fluttuante: iniziale intesa tra l’uomo e la donna, presa di coscienza delle differenze, scontro, ed infine il sincero affetto finale. Iconica la sequenza del tetto, dove si raggiunge il massimo della tensione tra i due personaggi: un tetto che rievoca quelli visibili, in lontananza, nelle tele Room in Brooklyn e Office in a Small City (entrambe di Edward Hopper, 1932 e 1953). Nuovi conflitti, ma anche nuove conoscenze: dentro casa avviene anche questo, come accade per il professore protagonista di Gruppo di famiglia in un interno (Luchino Visconti, 1974). Dramma interamente girato in due appartamenti dello stesso palazzo, narra il contatto tra mondi contrapposti: il mondo antico del professore, uomo circondato da quadri del passato e da vecchi libri, e quello degli affittuari dell’altro appartamento, giovani, schietti, insensibili alla vecchia realtà incarnata dal professore. Il giovane Konrad rappresenta il figlio che il professore non ha mai avuto: la morte del ragazzo segna il mancato passaggio del testimone tra una generazione e l’altra, tra un mondo del passato ed uno nuovo, incapace di comunicare con i propri antenati. I lungometraggi di Visconti, Scola e Buñuel sono particolarmente caratterizzati dal tempo che scorre nella giusta maniera: gli eventi non vengono anticipati dalla fretta, i personaggi evolvono con la giusta lentezza. “Lentezza” è un termine oggi malvisto, quasi ripudiato dal linguaggio comune, ma come ci ricorda Nicolás Gómez Dávila: «Qualsiasi opera compiuta con lentezza acquisisce un sapore speciale»[1]. Speciali sono le vicende dei nostri personaggi rinchiusi nelle loro case, come speciale è la nostra attuale condizione di clausura. Non si sa se ne trarremo qualche insegnamento, rischiando, in futuro, di ricordare queste nostre giornate particolari in maniera superficiale. E qui vengono in mente le parole di Flaiano: «Questa è un’epoca commemorativa. La quantità di denaro che si impiega per commemorare le cose accadute è enorme. Lo stesso denaro, se fosse stato impiegato a suo tempo per le stesse cose, avrebbe forse mutato il corso della storia»[2]. Commemoriamo sempre le emergenze passate, ma troppo spesso dimentichiamo la gravità di ciò che è accaduto: ogni significato svanisce, rischiando così di far ricadere il corso della storia nei vecchi errori e di rimanere intrappolati, ancora una volta, come i protagonisti de L’angelo sterminatore.

Silvio Gobbi

Note
[1] Nicolás Gómez Dávila, Notas, volume I, Circolo Proudhon Edizioni, 2016, p. 254.
[2] Ennio Flaiano, La solitudine del satiro, Milano, Adelphi, 2013, p. 314.

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