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Film e cecità
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Perdita della vista e presa di coscienza: la cecità nel cinema

Demodoco, aedo della corte di Alcinoo, re dei Feaci, è cieco. Egli canta le gesta della guerra di Troia, con lì presente Odisseo ad ascoltare. Il cantore conosce così bene i fatti da sembrare un testimone diretto, ma ciò è impossibile: non è stato in guerra a Troia e, data la sua condizione, non avrebbe potuto vedere nulla. Ma, grazie al dono divino, egli vede e sa meglio di chiunque altro: può vedere la storia e narrarla con una chiarezza impareggiabile, tanto da far sciogliere il pellegrino eroe dell’Odissea in lacrime. Il cieco possiede una conoscenza ineguagliabile. La cecità è una forma di vista, di conoscenza: un tòpos comune nella letteratura e nell’arte. La cecità può essere sia una benedizione che una punizione, o entrambe contemporaneamente. Val di Hollywood Ending (Woody Allen, 2002) benedice il suo periodo di cecità psicosomatica, perché grazie ad esso arriva ad apprezzare maggiormente la sua ex moglie: «Ogni marito dovrebbe diventare cieco per un po’», afferma. La cecità porta gli esseri umani ad andare oltre, a capire: una volta che la vista sparisce, il proprio passato viene metabolizzato e compreso. Come Harry Caine/Mateo Blanco, regista/sceneggiatore cieco protagonista de Gli abbracci spezzati (Pedro Almodóvar, 2009): perde, in un incidente stradale, la vista e la sua metà, Magdalena. Una storia travagliata, fitta di tradimenti ed amori nascosti: attraverso la perdita della vista, egli ripercorre la sua complessa storia, districando la matassa della sua vita. Ma la cecità ha anche un aspetto meno romantico, più doloroso: una danza verso la fine, verso la morte, come quella di Selma in Dancer in the Dark (Lars von Trier, 2000). Tanto più si acuisce il dramma della donna, tanto più progredisce il calo della vista: un drammatico musical capace di costruire un senso di disgrazia incredibile. La cecità come simbolo della decadenza: l’amaro capitano Fausto Consolo di Profumo di donna (Dino Risi, 1974), con il suo fare sprezzante, inacidito dalle tenebre perenni della sua condizione, non ha né saggezza, né vitalità. Vive il buio come una punizione: lo tengono in vita soltanto le cosce delle donne e l’alcol che beve a litri. Nel distopico The Lobster (Yorgos Lanthimos, 2015), la miope donna viene accecata a tradimento e cerca di fuggire dai suoi nemici con il proprio uomo. Lui vuole accecarsi per vivere nel buio come lei: ci riuscirà? Il nodo non viene sciolto, ma evidente è la desolazione dei due personaggi: in un mondo già cieco, incapace di vedere e comprendere gli esseri umani, la coppia è pronta ad una vera e radicale cecità fisica. Un po’ presa di coscienza, un po’ follia e disperazione. Il cammino della cecità è diverso per ognuno dei protagonisti: catartico per alcuni, una condanna per altri. Per certi è un sentiero che porta inevitabilmente a cadere, come i personaggi della Parabola dei ciechi di Pieter Bruegel il Vecchio (1568): un cammino verso il baratro, verso la «Notte del mondo». La perdita della vista, per soggetti come Selma e Fausto, è la perdita di Dio, del futuro, delle prospettive. Per loro la «[…] mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa. […] Non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero» (Martin Heidegger). La loro cecità è causa di disordine e sempre più povera è la loro vita. Per alcuni, invece, la cecità è un cancello che si apre, spalancando la loro maturità. Non potendo più vedere, imparano ad ascoltare, ad apprendere la grandezza dell’udito, il senso che può «contribuire per la maggior parte alla ragione. Il parlare, essendo udibile, è causa dell’apprendimento non in sé e per sé, ma accidentalmente, perché è costituito di parole, e ogni parola è un simbolo» (Aristotele). Ogni parola udita è un simbolo che si insinua profondamente nella mente del cieco accrescendone la ragione, la coscienza, come accade a Val e Harry Caine. Ciechi come i manichini di Giorgio de Chirico, Val, Harry, Selma, Fausto, la donna miope, nel bene o nel male, acquisiscono un qualcosa in più: una nuova visione (positiva e/o negativa) della vita e del mondo. Perdendo la vista, i personaggi si rivolgono maggiormente al loro interno, vedono i loro errori, ed imparano a conoscersi. Approdano alla loro intimità, acquisendo «veridicità e sapienza», gli obiettivi tanto cari allo Stagirita e ad ogni pensatore della storia.

Silvio Gobbi

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