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“Il mio Godard”: il ritratto d’autore di un genio odioso

La recensione

Il recente film Il mio Godard (Le redoutable) di Michel Hazanavicius narra, traendo ispirazione dal libro autobiografico Un anno cruciale di Anne Wiazemsky (la quale sposò il regista nel 1967), del periodo successivo all’uscita del film di Godard La cinese (La Chinoise, 1967, dove Anne era protagonista). L’opera del regista francese fu praticamente stroncata dalla maggior parte della critica dell’epoca, innescando così una crisi nell’autore, il quale cominciò a manifestare sempre maggiormente il suo carattere egoista, non contenendo più i propri difetti caratteriali, fino ad arrivare a farsi odiare dalla propria moglie e dai suoi amici più cari. Il fallito tentativo filmico marxista-maoista de La cinese portò l’autore a partecipare, goffamente, nell’intento di scorticare da sé il ruolo di regista borghese, alla contestazione studentesca del Maggio francese. Tale impegno politico sfociò poi nella fondazione, insieme al regista e critico cinematografico Jean-Pierre Gorin, del gruppo cinematografico marxista e rivoluzionario “Dziga Vertov” (inoltre Godard misconobbe tutto il cinema antecedente, compresa la sua Nouvelle Vague). Michel Hazanavicius riesce a sottolineare bene il lato egocentrico del protagonista (interpretato da Louis Garrel), senza mai scadere in una moralistica condanna. L’autore conferma la bravura che aveva dimostrato con The Artist (2011), riuscendo a rielaborare egregiamente il genere biografico, dandone una chiave nuova, non pedante, fresca e piacevole: un ottimo film biografico con carattere, disancorato dall’impostazione classica narrativa del genere, che non scade mai nella condanna né nella reverenza, riuscendo a rievocare, durante il corso della storia, lo stile della Nouvelle Vague in maniera elegante, senza risultare mai scontato.

La pellicola ci mostra come Godard abbia vissuto soltanto in funzione di sé e del cinema, ed infatti è proprio lì che egli ha esternato il meglio della sua personalità ed espresso tutto il suo amore. Non a caso, la scena più lunga di amplesso tra il regista e la giovane Anne Wiazemsky (Stacy Martin) è interamente girata in bianco e nero, con delle inquadrature ed un montaggio che riprendono perfettamente la tecnica utilizzata da Godard stesso nelle scene d’amore di uno dei suoi film maggiori Une femme mariée (1964). Questa scena sta a significare che l’unico vero amore dell’autore non era sua moglie, dato che viene girata come la protagonista di un suo film: lui la vede come un personaggio della sceneggiatura della sua ambiziosa vita, un corpo che fa da tramite tra il regista e l’unica entità che egli realmente ama, il Cinema. La giovane moglie fa di tutto per sopportare quell’eternamente insoddisfatto e combattuto marito: il carattere dell’acclamato regista francese non riesce mai ad andare avanti, rimanendo bloccato sui propri errori (un disco rotto che si ripete, come quello che sentiamo in una scena del film). Anne si è sacrificata al massimo (come una moderna Giovanna d’Arco, come vuole suggerirci il regista, citando in una scena il film La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer), ma è stata maltrattata da un borghese egoista, un finto rivoluzionario che non sapeva accettare la propria natura conservatrice. Godard ha fallito non riuscendo a trasportare l’eccezionalità da lui raggiunta nel cinema nella vita reale. Non è riuscito a fare, della vita, una rivoluzione e un’opera d’arte, ma ha soltanto dimostrato il peggio di sé, perdendo gli affetti che aveva conquistato. Ma tutto ciò non è rappresentato con dramma, né con classico moralismo, da parte del regista: Hazanavicius ci ha lasciato un ritratto piacevole, umano, di un genio odioso, senza alcuna pretesa di predica, dimostrando che esiste sempre un modo diverso per affrontare un film di genere (in questo caso il cinema biografico) dove si può aggiungere il proprio tocco d’autore, senza snaturare le fondamenta del genere trattato (e per questo bisogna ringraziarlo).

Silvio Gobbi

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