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Theatre A Love Story
Theatre: A Love Story

La recensione: “Theatre: A Love Story”, di Isao Yukisada

Un ragazzo di nome Nagata si ripete continuamente se riuscirà ad andare avanti, una ragazza di nome Saki vive la vita con felicità e vuole il bene per tutti. Il primo è un autore teatrale con un talento non sufficiente per sfondare nel campo, la seconda, attrice dilettante, fa vari lavoretti per campare ed è serena della sua condizione. I due vivono a Tokyo e si incontrano: nasce l’amore. Vanno a vivere insieme, ma la spocchia di lui intacca gradualmente la vivacità di lei: Saki fa di tutto per fare felice Nagata, ma il muso del ragazzo rimane una costante odiosa. Lui ha trovato una fortuna, dato che lei provvede ai bisogni di entrambi senza che il giovanotto tiri fuori un soldo. Il regista perde tempo, lavora poco alle sue sceneggiature, ed influenza sempre di più il buonumore della sua sincera compagna: non capisce la fortuna di averla incontrata ed il loro rapporto tracimerà sempre di più. Questa di Theatre: A Love Story (diretto da Isao Yukisada, disponibile su Amazon Prime Video) è una storia come tante altre già realizzate: un uomo egoista, uno sceneggiatore/regista narcisista, è incapace di amare chiunque all’infuori di sé e rovina chi gli sta intorno. Il giovane potrebbe benissimo essere un qualsiasi artista vanitoso del mondo occidentale: gli manca soltanto di bere come Carver (in certi momenti ci si avvicina) e di dire, come faceva Carmelo Bene, «Lei non può parlare di Dio con Dio» (non lo dice, ma il suo atteggiamento fa trapelare questo messaggio). Un egoismo diffuso fortemente nel mondo dell’arte, in tutto il globo: una costante degna della più classica scuola antropologica strutturale (quasi un caso adatto per Claude Lévi-Strauss). Come nello Yin e Yang, una punta di nero è nel bianco e viceversa. Anche in lui c’è un’umanità sopita che si risveglia, timidamente, quando la storia è ormai agli sgoccioli, e in lei c’è un tratto nichilista che, leggermente, viene a galla nel momento di massima depressione. Il teatro è l’unica grande ossessione del giovane, Icaro del palcoscenico che non riesce mai a decollare, per pigrizia e limiti, e Yukisada fa del teatro il vero punto centrale del film: Nagata vuole farne la sua vita, a costo di rovinare quella di Saki. Il teatro diventa fonte di dolore e di piacere. Nel finale, il lungometraggio raggiunge il suo massimo: la realtà si mescola con la performance teatrale. Si sfocano i confini tra rappresentazione e vita, tra arte e verità: scopriamo che Nagata e Saki stanno recitando in un palcoscenico, applauditi da un pubblico numeroso. E tra la gente c’è una donna che piange, una Saki adulta che rivede la sua storia sul palcoscenico. Una sorta di sfondamento della quarta parete: il finale, parzialmente, rimedia alle ridondanze note della prima parte dell’opera. Questa idea, anche se non pienamente originale, di mescolare la storia vera con la sua rappresentazione, dona alla pellicola una boccata d’aria necessaria per ripulirsi un po’ dallo sviluppo scontato della vicenda. Con questa scelta drammaturgica, Yukisada dà lo sprint necessario a Theatre: A Love Story: il teatro è una storia d’amore, in senso più ampio è la vita, e può diventare sia morbosa che esaltante, come per i nostri protagonisti. Dipende dagli attori in campo, dalle loro decisioni, dalla sceneggiatura che, giorno dopo giorno, scrivono: dalle scelte, dalla vita che decidono di percorrere con le loro gambe.

Silvio Gobbi

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