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Follia ed emarginazione nel cinema italiano

«È un condominio di santi. […] Una scuola di santi. Qua ci insegnano a diventare santi. […] I santi sono sempre santi, giorno e notte per tutta la vita». Nicola (La pecora nera, Ascanio Celestini, 2010) vive da trentacinque anni in manicomio. Ci è finito da ragazzino: la madre era morta, i fratelli ed il padre lo maltrattavano, solo la nonna gli voleva bene. È finito all’ospedale psichiatrico e lì è cresciuto, allontanato dal mondo prima di conoscerlo. Non era matto, ma solo sensibile e, alla fine, è diventato anche lui un “santo”, come gli altri pazzi. Persone relegate ai margini, considerate fastidiose per la società: il simbolo di un errore, una deviazione rispetto al corretto sviluppo del mondo. Nell’età moderna, la ragione ha assunto la supremazia sulla follia e quest’ultima viene svuotata di ogni spiegazione che non sia di carattere psicologico e/o patologico, il disturbo mentale viene considerato sia un male da curare che una deviazione da correggere: per ottenere ciò, si creano le strutture atte ad isolare i soggetti affetti da questa condizione, per avere un maggiore controllo su di essi (Michel Foucault nel noto Storia della follia nell’età classica ben espone la questione). Come Nicola, in molti sono finiti in queste strutture, trattati malamente da medici e figure sanitarie che, anziché porsi delle domande sulle ragioni della pazzia, hanno preferito delle inadeguate e violente risposte di trattamento. Una questione spinosa che anche il cinema ha trattato ampiamente. Pazzi di amore, pazzi di povertà, di fame, di trauma, di tutto: la follia, sotto varie declinazioni, è presente in molte pellicole. E la pazzia porta ad una conseguenza tanto evidente quanto spesso sottovalutata: l’allontanamento dell’errore dagli occhi, l’emarginazione dei matti. Nicola è un esempio, uno dei tanti. Come non ricordare Augusto (Tolgo il disturbo, Dino Risi, 1990): ex direttore di banca, rinchiuso in manicomio per ciclotimia. Ritorna a casa dopo anni, il figlio se ne è fregato di lui, lo accolgono la nuora e la nipotina, con la quale instaura un rapporto veramente forte, quasi d’amore. Anche lui, pur essendo ricco, è un emarginato: non solo i poveri matti vengono allontanati, anche i ricchi possono fare questa fine. Quando arriva la follia, si diventa sempre un peso, a prescindere dalla ricchezza che si possiede. Cambiano le cliniche, ma l’emarginazione resta sempre. Come dice Militina (La classe operaia va in Paradiso, Elio Petri, 1971), operaio rinchiuso in manicomio dopo essere impazzito al lavoro, anche i ricchi diventano pazzi, anche i benestanti danno di matto, ma vengono nascosti meglio. Essere nascosto per essere dimenticato: ricchi e poveri, quando la pazzia è conclamata, il destino è quello. Cosa può far scattare questi problemi? Tutto può scatenare il guaio, dipende dal soggetto. Spesso, il peso del mondo fa scattare nelle anime più provate il germe della follia, l’esasperazione e l’uscita da sé. Colui che esce dalla realtà per come deve essere percepita infrange i fondamenti della psicopatologia e della psicologia, alla base dei quali c’è «[…] la convinzione di conoscere il vero senso del mondo e della vita degli individui, lontano dal quale essi sono condotti alla follia» (Emanuele Severino). Quindi è «pazzo» chiunque si allontani dal «vero senso del mondo»: il confine tra salute mentale e follia diventa fortemente labile, di difficile equilibrio. Ricordiamo, a proposito, i personaggi della commedia Si può fare (Giulio Manfredonia, 2008): degli ex pazienti del manicomio, organizzati in una cooperativa coordinata dal sindacalista Nello, tentano di reinserirsi nel mondo lavorando come posatori di parquet. Quasi tutti i membri della squadra dimostrano che il reinserimento graduale nella società può funzionare: il confine tra salute e follia è valicabile anche in senso positivo, una volta usciti dal manicomio sia fisicamente che mentalmente. Ma ci sono soggetti che si allontano in maniera siderale dal mondo, allontanandosi definitivamente da questo «confine», impossibilitati a reinserirsi nel quotidiano, come Ivo Salvini, il protagonista de La voce della Luna (Federico Fellini, 1990). Soggetto lontano dalla realtà, alla ricerca delle voci arcaiche della Luna e della profondità della Terra. Una figura pazza e mitica al tempo stesso, quasi antica, poetica e leopardiana: vive in solitudine, tra campagna e città, in compagnia dei pochi lunatici come lui. Questi sono solo alcuni degli autori che hanno rappresentato la follia con tatto e vigore: dagli operai esasperati, ai banchieri abbandonati, agli uomini soli come Nicola e Ivo. Personaggi che vivono in un mondo incapace di accettarli, con il quale non sanno, o non possono, più comunicare. Soggetti impazziti perché, magari, hanno avuto paura di esprimersi e di parlare di loro stessi, come diceva Lia (studentessa-psicologa protagonista di Il manicomio-Lia, Alberto Grifi, 1977), e sono sfociati nella nevrosi, condotti ad essa perché non combacianti con l’immagine del mondo ufficialmente riconosciuta.

Silvio Gobbi

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