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Ospedale Bartolomeo Eustachio San Severino Marche
L'ospedale "Bartolomeo Eustachio" di San Severino

Ripensiamo la sanità, lo dobbiamo a noi, ai nostri figli e nipoti

Di fronte all’emergenza Coronavirus si parla molto di salute pubblica e di ospedali. Il nostro “Bartolomeo Eustachio” sta svolgendo un’opera importante, così come accadde dopo la crisi sismica del 2016. Speriamo che i governanti capiscano davvero quanto sia strategica la struttura settempedana e che ascoltino le istanze di questo territorio. Di seguito intanto vi proponiamo un excursus sulla sua nascita e riflessioni sul suo futuro.

L’ospedale “B. Eustachio”, alla fine del mese di settembre 1977, entrava nel pieno della sua operatività nel nuovo edificio in via Settempeda: i lavori erano iniziati nel 1971.

Dalle pagine di cronaca de “La Voce Settempedana”, curate da don Amedeo Gubinelli, leggiamo che “Dal primo giugno erano stati già trasportati gli uffici amministrativi; in seguito vennero messi in funzione i laboratori di analisi. E’ stata quindi la volta dei vari servizi, fino all’ultima operazione, quella del trasporto dei malati. Il trasferimento è avvenuto tra mille difficoltà, non ultima quella della carenza di personale. Sono stati messi in funzione 150 posti letto…”.

Nel mese di aprile 1977 si era tenuto un incontro dibattito con la cittadinanza sul tema “Funzioni e prospettive del nuovo nosocomio”. Erano presenti il sindaco Pelagalli, il presidente dell’ente ospedaliero Giancarlo Cristini, il Consiglio di amministrazione al completo, numerosi sanitari, tra cui i dottori Marchetti, Peda e Scatizza.
Subito era stato messo in evidenza che il “B. Eustachio” sarebbe stato l’Ospedale generale di zona al servizio del territorio della Comunità montana zona “H”, con circa 21 mila abitanti e comprendente i Comuni di Castelraimondo, Fiuminata, Gagliole, Pioraco, Sefro, San Severino (esclusa Treia che allora faceva parte della stessa Comunità montana).

L’ospedale doveva essere utilizzato per malattie acute e per rapida degenza, evitando la lungodegenza. Per snellire il servizio e per economizzare sulle spese di ricovero, si doveva cercare di ridurre i lunghi ricoveri per analisi e bisognava introdurre il “day-hospital”: un nuovo esempio che stava arrivando, in quel periodo, dall’America.

Il “Bartolomeo Eustachio”, dunque, è stato sempre un baluardo della sanità nel nostro territorio, finché non è intervenuta la dissennata politica dei “tagli” ai posti letto, della riduzione del personale e delle risorse, a discapito dei servizi resi alla popolazione. Tuttora, in questo periodo di crisi per il Covid-19 si sta vedendo quanto sia importante la struttura settempedana per accogliere pazienti, con patologie “no Covid”, provenienti dagli ospedali di Camerino, Civitanova e Macerata. Nel capoluogo adesso è stata addirittura ripristinata la palazzina delle malattie infettive, che venne riconvertita appena 6 anni fa. Ecco allora che molti si pongono legittimi interrogativi. Uno su tutti: “Quanti danni sono stati fatti alla sanità pubblica in questi ultimi decenni, a vantaggio delle strutture private?”.

Nei giorni scorsi si è tornati a riparlare anche dell’ospedale unico provinciale di Macerata, a seguito del parere favorevole del Dipartimento della programmazione economica (“Dipe”) a proseguire l’iter procedurale per la sua realizzazione. Si vuole così concentrare un alto numero di pazienti in una grande struttura con un progetto che non tiene conto di epidemie come quella che stiamo vivendo e di altre emergenze. Abbiamo visto che, di fronte a malattie infettive di tipo nosocomiali, i grandi ospedali diventano focolai di contagi. Stiamo vedendo il personale sanitario svolgere in questo momento un lavoro di straordinaria importanza con pochi mezzi di protezione. Stiamo vedendo medici e personale paramedico morire in “trincea”. Sentiamo dire che non è stato possibile salvare tanti pazienti per mancanza di apparecchiature, per scarsa organizzazione, per non aver avuto delle “riserve strategiche” di ciò che serve in caso di emergenza, a partire da mascherine, tute speciali, respiratori… Non ci sono sufficienti strutture separate per malattie infettive. Allora, di fronte al nemico, è meglio schierare le truppe su più punti strategici, invece di concentrarle in un unico punto, dove potrebbero diventare un facile bersaglio. Perché dobbiamo aspettare sempre che ci sia un’emergenza per affrontare il problema? Perché si corre ai ripari quando il danno è fatto? Ecco il motivo per cui si grida – ad alta voce e da più parti – che va rivista la gestione del sistema sanitario.

Proprio in queste tristi  settimane, quando ogni giorno ascoltiamo bollettini di guerra sul numero dei contagiati e dei morti; quando ogni giorno ci viene ripetuto che la migliore arma contro il Coronavirus (col quale dovremo convivere per lungo tempo) è l’isolamento, è limitare i movimenti, è evitare gli assembramenti; com’è possibile pensare ancora al grande ospedale unico? Si progetta la realizzazione di una struttura che comporterà l’accentramento di tantissimi degenti e di una gran mole di personale sanitario; che comporterà inevitabilmente un grande spostamento, in ambito provinciale, sia di utenti che di addetti ai lavori. Ma tutto ciò non aumenterà i rischi di diffusione di contagi? Non è meglio avere delle strutture sanitarie distribuite sul territorio? Ad esempio quelle per la zona montana-collinare, quelle per la fascia centrale della provincia e quelle per la costa?!
In questo modo si potrebbe pensare di riorganizzare la sanità ripartendo dal sistema delle Unità locali dei servizi sanitari degli anni ’80, come era nel periodo in cui vide la luce proprio il nuovo ospedale “B. Eustachio”. Bisogna ritornare a un sistema sanitario che distribuisce i servizi, invece di accentrarli, ottimizzando le risorse e facendo scelte che vadano a beneficio dell’entroterra e delle zone colpite dal sisma, dove magari la popolazione è un po’ più anziana ma ha voglia di continuare a vivere qui, in una dimensione certamente più umana rispetto ai modelli della globalizzazione che il Coronavirus sta mettendo in crisi. Almeno questo è il nostro auspicio.

Fiorino Luciani

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