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La solitudine nel cinema e nei nostri giorni
La solitudine nel cinema e nei nostri giorni

La solitudine nel cinema e nei giorni nostri

Il vecchio professore Isak Borg cammina per la città vuota e si guarda intorno: le vie sono deserte, illuminate da una luce chiara e limpida. Si accorge che gli orologi sono particolari: non hanno le lancette. Il tempo si è fermato o non esiste più? Appare un uomo, sembra un fantoccio, dall’espressione grottesca e accigliata: lo strano individuo cade a terra e comincia a scorrere del sangue. Ad un certo punto, passa un carro che urta contro un lampione: la vettura cede e dalla cassa trasportata si intravede un morto. Avvicinandosi al feretro, Borg viene afferrato dal defunto: l’uomo nella bara è il professore stesso. Isak si sveglia: era un sogno, giunto per ricordargli la fine del tempo a disposizione. Questo emblematico episodio del film Il posto delle fragole (Ingmar Bergman, 1957) ricorda la greve atmosfera che cogliamo oggi nelle nostre strade: queste vie desolate, per l’emergenza sanitaria in corso, rievocano l’incubo di Borg. Come Isak, siamo incuriositi e confusi nel vedere le strade vuote e percepiamo la rarefazione del tempo: ripercorriamo, mentalmente, luoghi non più battuti e facciamo i conti con questa concreta ed inaspettata situazione. Non siamo più abituati alla quiete, tanto siamo assuefatti al chiasso, oggi più che mai presente nei social network. Come il professore, viviamo una solitudine sia fisica che esistenziale: i vuoti e i silenzi ci fanno sempre più compagnia. Il silenzio che tanto spaventa il cavaliere Antonius Block (Il settimo sigillo, Ingmar Bergman, 1957), è ormai una presenza fissa. Dice il paladino: «E’ l’ignoto che mi atterrisce», e ricerca con smania e timore risposte per dissipare i suoi dubbi ed agguantare una qualche certezza. Anche noi cerchiamo sicurezze irraggiungibili, andando avanti senza una meta sicura in questi giorni precari: la certezza è sempre stata assente, ma oggi particolarmente, in queste settimane di trend altalenanti e prospettive indefinibili. Tante sono le domande, pochissime le risposte: quasi nessuna, e la notte sembra non finire mai. Una notte dove i bar sono chiusi e i nighthawks di Hopper sono costretti a restare in casa. Non si può passeggiare lungo le desolate vie di Milano, come fa Lidia ne La notte (Michelangelo Antonioni, 1961). Lidia tocca le pareti, scortica, un po’ per noia, un po’ per appagare un senso di possessione mai raggiungibile, l’intonaco dalle mura dei palazzi: il tentativo di afferrare una solidità mai concretamente realizzabile. Il gesto di una donna fragile, in balìa di una notte dalla fine imprevedibile: chissà quale tipo di alba la attende (e ci attende). Altrettanto fragile è la vita dei protagonisti di Teorema (Pier Paolo Pasolini, 1968). Una famiglia alto-borghese sconvolta dall’arrivo di un ospite: un uomo che scardina tutti gli ipocriti equilibri presenti all’interno del loro ecosistema. Una volta entrati in contatto con questo elemento esterno, con questo agente misterioso, la loro esistenza tracolla e il nulla circonda la vita. La loro mente diventa arida di prospettive: un vuoto assorbe ogni pensiero ed azione. Si svuota quella che una volta fu una famiglia (almeno formalmente). La vita dei membri del nucleo piomba in un “deserto”: un luogo che «Nasceva da se stesso, continuava con se stesso, e finiva in se stesso: ma non rifiutava l’uomo, anzi lo accoglieva, inospitale ma non nemico, contrario alla sua natura, ma profondamente affine alla sua realtà»[1]. E quando si finisce nel deserto, l’unica cosa da fare è camminare, anche se ogni punto sembra lo stesso: possiamo solo andare avanti finché si potrà, cercando di orientarci in questo ambiente così contrario e allo stesso tempo affine alla nostra realtà. Non ci sono formule magiche né insegnamenti da apprendere. Ha scritto Cioran: «Non saranno i precetti dello stoicismo a indicarci l’utilità dei soprusi o l’attrattiva delle avversità. I manuali di insensibilità sono troppo ragionevoli»[2]. E così è: non c’è una ricetta pronta, si possono soltanto seguire le misure indicate e sperare per il meglio. Non risolverà ogni problema lo stoicismo e nemmeno il cinema, ma con questi film (e molti altri) possiamo capire come elaborare il silenzio che viviamo: impareremo ad abituarci alla solitudine (come diceva il regista Tarkovskij) e, in un futuro, questi deserti paesaggi (quasi una rievocazione delle tele di Sironi e di de Chirico) che oggi ci circondano, saranno un ricordo. Un ricordo che non dovremo dimenticare.

Silvio Gobbi

Note

[1] Pier Paolo Pasolini, Teorema, Milano, Garzanti, 2012, p. 88.
[2] E. M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza, Milano, Adelphi, 2013, p. 78.

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