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L'ufficiale e la spia
L'ufficiale e la spia

La recensione: “L’ufficiale e la spia”, di Roman Polański

Dopo essere stato condannato nel dicembre del 1894, il 5 gennaio 1895, il capitano dello Stato Maggiore Alfred Dreyfus viene ufficialmente degradato per spionaggio e confinato all’isola del Diavolo, dove non può parlare con nessuno. Il tribunale militare è soddisfatto: l’ebreo, al soldo dei tedeschi, passava informazioni sensibili al nemico, rischiando così di danneggiare la patria. Alla fin dei conti, chi, se non un ebreo, poteva tramare contro la nazione per proprio tornaconto? Un perfetto caso da manuale. L’ufficiale ha sempre dichiarato la propria innocenza, ma il tribunale, con un processo alquanto discutibile e privo di prove, ha sentenziato il contrario. Mentre Dreyfus è espulso, il colonnello Georges Picquart diviene capo dell’ufficio informazioni e statistica dello Stato Maggiore: il cervello dello spionaggio militare francese, dove tutti i sospettati vengono intercettati e controllati continuamente. In questo luogo sono state raccolte le “prove” della colpevolezza del «semita al soldo dell’internazionale ebraica». Nel 1896, indagando sulla presunta attività di spionaggio dell’ufficiale Ferdinand Walsin Esterhazy, Picquart scopre che la grafia di Esterhazy è identica a quella della lettera che ha incastrato Dreyfus. Il sospetto di Picquart si fa sempre più fondato: confrontando le carte, leggendo il dossier sull’ufficiale ebreo (quattro fogli volanti che non forniscono alcuna prova innegabile), il colonnello giunge alla conclusione che Dreyfus è stato volutamente incastrato ed incriminato per crimini che non ha commesso. Cominciano i problemi per Picquart, ora che decide di anteporre la verità all’immagine dell’esercito: pur non rispettando lui stesso gli ebrei, non sopporta che un innocente sconti la pena al posto di chi è veramente colpevole. Le sue indagini si fanno sempre più fitte, finché i ministri ed i generali non capiscono che sta indagando troppo. Viene così ostacolato, imprigionato, processato, ma sarà grazie a lui, alle sue indagini, al suo contatto con Émile Zola (il quale contribuirà ad agitare ancor più le acque pubblicando il celebre «J’accuse», dove vengono denunciati, grazie alle informazioni di Picquart, il governo e l’esercito francese) a far riaprire il caso Dreyfus per scoprire la verità. Questa è la storia, asciutta e terribile, raccontata nel film di Roman Polański L’ufficiale e la spia (J’accuse, titolo originale). Il maestro del cinema porta sullo schermo una vicenda che tutti conoscono, ma in pochi ricordano: l’ignobile condanna razzista nei confronti di un ebreo innocente. Era la Francia di fine Ottocento, ancora molto tesa per via della disfatta nella Guerra franco-prussiana del 1871: gli ebrei (da secoli malvisti) erano i capri espiatori, i presunti membri della cospirazione internazionale, pronti a sovvertire la cristianità e l’ordine costituito. Tutti i fatti narrati sono reali: Roman Polański decide di abbandonare l’edulcorazione dei fatti, la rielaborazione degli eventi tipica di troppi registi che si permettono di trattare gli eventi storici aggiungendo le loro licenze artistiche. In questa pellicola, il regista dona alla storia il primato che le spetta: il primato dei fatti sulla rielaborazione artistica. Senza arrivare alla forma del documentario, Polański dirige il film con il proprio elegante stile, una fotografia impeccabile e degli ottimi interpreti (specialmente Jean Dujardin nel ruolo di Picquart e Luois Garrel nei panni di Dreyfus). Nessun personaggio cede al patetismo: le drammatiche vicende sono vissute con compostezza, quella che possiamo percepire nel leggere le loro memorie ed i documenti attinenti. Proprio in questo Polański riesce a distinguersi dalla maggior parte dei registi: il senso del limite. Non va oltre con le emozioni, con le interpretazioni: rappresenta ciò che si sa, ciò che è documentato, senza farsi prendere da estri emotivi. E con ciò non scade nella noia: il ritmo del film è serrato come non mai, bisogna seguire attentamente la trama per non perdere nessun passaggio; il regista sa catturare il pubblico con questa lezione di storia in chiave filmica. Gran premio della giuria a Venezia più che meritato: una vicenda che ci ricorda che la verità è faticosa, spesso mortale, ma che, alla fine, viene a galla se si è pronti a perdere tutto (dalla libertà alla vita stessa). Zola fu coscientemente pronto a finire in galera per ciò che aveva scritto (un vero giornalista, specie oggi quasi del tutto estinta) e Picquart pronto alla prigionia per aver cercato di far venire a galla il marcio dei suoi colleghi d’esercito: loro, e pochi altri, hanno remato contro lo status quo non per eroismo, ma per senso del dovere nei confronti della giustizia. Polański, rappresentando questo episodio del passato, ci ricorda quanto, ancora oggi, sia facile dare la colpa al perfetto colpevole di turno, quando si decide di non indagare: per certi aspetti, dopo più di un secolo, non siamo cambiati di una virgola. Le masse esasperate di ieri sono indomite e irragionevoli come quelle di oggi, ed alcune frange del potere possono operare in maniera deviata. Ancora oggi, la semplificazione è padrona dei ragionamenti ed il giustizialismo è sempre più tagliente. Sono passati anni, ma il caso Dreyfus di turno è sempre dietro l’angolo, pronto a ripresentarsi sotto altre forme, ma con la stessa sostanza: basta vivere in un periodo di crisi per farsi abbindolare ed arrivare così ad incolpare le persone sbagliate. Ieri, come oggi.

Silvio Gobbi

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