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Il Maestro Gino Brandi
Il Maestro Gino Brandi

Viaggio nel passato dopo il concerto del Maestro Gino Brandi

Una galleria dei ricordi dedicata ai liceali di ogni tempo
UN VIAGGIO NEL PASSATO DOPO IL CONCERTO DEL MAESTRO GINO BRANDI
di Alberto Pellegrino

In occasione del concerto che ha avuto luogo domenica 3 novembre 2019 al Politeama di Tolentino, il Maestro Gino Brandi ha dimostrato ancora una volta le sue doti di pianista eccezionale per tecnica, interpretazione, memoria musicale nell’eseguire brani di Bach, Beethoven, Liviabella, Chopin, verdi, Bizet e Khachaturian. Per me non è stato solo l’incontro con un straordinario artista, ma anche una emozionante immersione nella memoria, perché Gino per due anni è stato nostro compagno di studi nel Liceo Classico di Tolentino. Fra i tanti amici di quegli anni esaltanti, mi piace ricordare soprattutto lui, al quale devo la mia prima formazione musicale. In un’epoca dove dischi e giradischi erano una merce rarissima e presente solo nelle case dei benestanti, Gino teneva spesso dalle 13 alle 14 nella sua casa dei piccoli concerti pianistici per noi studenti sanseverinati, che eravamo in attesa di prendere il treno. Grazie a questi “concerti privati” ho potuto conoscere Beethoven, Listz, Gershwin e soprattutto Chopin che è rimasto il mio grande amore musicale. Senza la generosità di questo grande artista oggi sarei musicalmente meno sensibile e più ignorante.
Gino Brandi arrivò in seconda classe nel 1952, ma già nel novembre 1951 un gruppo di studenti di Tolentino, San Severino e dintorni, provenienti dai Licei Classici di Macerata e Camerino, erano “migrati” a Tolentino nella sezione distaccata del Liceo Classico “Giacomo Leopardi” di Macerata. Eravamo una specie di legione straniera formata dai “vecchi” della terza, dagli “anziani” della seconda e dai “pivelli” della prima classe e fummo accolti a Tolentino dall’austera facciata di Palazzo San Gallo, luogo deputato ad ospitare per tre anni i nostri sogni, le nostre speranze, le nostre illusioni di giovani poveri o semi-poveri, benestanti o quasi, ma tutti rampanti e ambiziosi.
Entrammo così a far parte della piccola comunità del Liceo Classico e per noi, provenienti da San Severino, era come vivere due esistenze separate in due mondi che raramente entravano fra loro in comunicazione. Nella nostra città si conduceva la vita di tutti i giorni con le esperienze comuni ai giovani di quel tempo: la partita di calcio all’oratorio, il tennis da tavolo e le carte da gioco nel circolo parrocchiale, le sedute al bar, le “vasche” percorse sulla piattaforma della Piazza. A Tolentino vivevamo la nostra avventura umana e intellettuale in un clima del tutto particolare, determinato dalle piccole dimensioni dell’Istituto, dove interagivano gruppi diversi per età ed estrazione sociale, dove i professori avevano un atteggiamento aperto e “democratico”, dove i problemi di ognuno diventavano i problemi di tutti, dove i successi e gli insuccessi personali erano sentiti come una vittoria o una sconfitta comune.
Molto probabilmente quella nostra voglia di fare e di vivere quasi con frenesia, quel forte sentimento di solidarietà derivavano dal fatto che tutti uscivamo dalla dura esperienza della guerra che aveva segnato la nostra infanzia. In quel clima di amicizia e di comune sentire, andavamo volentieri a scuola (magari dopo aver copiato i compiti e senza aver studiato) per il gusto di stare insieme, di scherzare, di sentirsi intellettualmente vivi, nonostante i nostri pantaloni riciclati, le nostre giacche portate per anni e spesso appartenute a padri o a fratelli maggiori, i nostri cappotti rivoltati, le nostre inguardabili camicie a scacchi, le nostre orribili cravatte americane.
In quegli anni stavamo vivendo le prime “avventure” umane e i primi amori adolescenziali, ma stavamo anche maturando un’esperienza intellettuale del tutto particolare, perché allora il Liceo Classico era un ambiente “elitario” proprio per gli studi particolari che impegnavano una ristretta cerchia d’intellettuali in erba. Il Liceo classico di Tolentino, sotto il profilo sociologico, era una comunità interclassista e nessuno soffriva di complessi d’inferiorità o tendeva a nascondere le proprie origini. Eravamo una comunità di “uguali” sul piano culturale ed era il contatto quotidiano con il mondo classico a fare di noi una ristretta élite intellettuale.
Nei tre anni di corso non c’è mai stato nessuno che abbia fatto pesare la propria estrazione sociale più o meno superiore rispetto alle altre e questo è stato uno dei principali fattori per cui il Liceo ha rappresentato per tutti una scuola di libertà e di democrazia. Se oggi molti di noi credono ancora in determinati valori morali e modelli culturali, si deve in gran parte alle esperienze umane, filosofiche, letterarie e artistiche maturate nel corso di quella lontana età giovanile. Se qualcuno dovesse chiedere a ognuno di noi che cosa resta di quella esperienza adolescenziale, certamente tutti risponderebbero che ci sono rimasti dentro il sapore della gioventù, il profumo di ostinate speranze, la voglia di raggiungere determinate mete che erano avvolte nell’incerta nebbia di quei “difficili” anni Cinquanta.
Avevamo pochi spiccioli nelle tasche, fumavamo una sigaretta in tre o quattro e, per la ricreazione, ci portavamo il panino da casa. Si parlava di ragazze e di sport, di religione e di letteratura, ma anche di politica, perché già allora eravamo democristiani o socialisti, monarchici o repubblicani e qualcuno era persino fascista. C’erano molti che s’interessavano del cinema neorealista o dei film di Totò, che amavano la letteratura italiana, latina e greca, a qualche “eccentrico” piaceva persino leggere poesie e romanzi contemporanei. In noi c’era una voglia di “arrivare” e un’intensa curiosità intellettuale, perché ci univa un forte senso di appartenenza, cementato dalla frequentazione delle stesse discipline scolastiche, dal fare “comunità” con molti docenti più “democratici”, dal praticare degli sport come la pallavolo o l’atletica che erano allora considerati d’élite.
Alcuni a Tolentino ci consideravano una “razza a parte”, ma questo era quasi inevitabile e anche comprensibile, perché a causa della nostra giovane età ci sentivamo alquanto “diversi” in una società scarsamente acculturata com’era quella agli inizi degli anni Cinquanta. Bisogna poi considerare che allora il Liceo Classico era considerato al primo posto fra tutte le scuole superiori, perché il mito dell’istruzione classica era allora dominante ed era facile sentirsi una élite, per cui gli abitanti di Tolentino, da un lato, ci guardavano con simpatia, dall’altro con un pizzico di diffidenza, perché eravamo considerati dei “figli di papà”, anche se in realtà molti di noi appartenevano alla piccola borghesia o addirittura al proletariato.
Come non ricordare i locali parrocchiali della Cattedrale di S. Catervo, che alle sette erano usati come laboratorio per ripassare le materie del giorno, per copiare i compiti da fare a casa, per giocare a biliardo, per programmare le classiche “salate”, per organizzare gli scioperi nazionalistici per Trieste italiana. Al suono della campanella noi sanseverinati incontravamo gli amici di Tolentino che, beati loro, potevano dormire fino alle otto, quindi cominciava per tutti il rituale delle lezioni, delle interrogazioni, dei compiti in classe, della “fumata” durante l’intervallo nel gabinetto dei maschi trasformato in “camera a gas”. E come dimenticare le nostre gite scolastiche (Venezia, Napoli/Caserta/Capri) vissute come un sogno proibito?
Se ritorno con il ricordo a quegli anni lontani, scopro che molto è rimasto in me dello studente liceale di un tempo, perché la memoria è un patrimonio prezioso e custodisce gelosamente volti, affetti ed esperienze che il tempo ha allontanano ma non cancellato. È stato uno dei periodi più belli e intensi della nostra giovinezza, un periodo fatto di contrasti e di forti passioni, quando riuscivamo a conciliare incontaminate speranze e un cosmico pessimismo leopardiano; quando nascevano i primi ingenui amori e quelle amicizie maschili forti di affetti e di totale complicità; quando avvenivano le prime scoperte intellettuali e nascevano le passioni politiche nel segno della nostra esuberanza giovanile. In quel piccolo liceo di provincia ho fatto delle esperienze fondamentali per la mia vita futura: ho scoperto il piacere del dibattitto storico-filosofico; ho incominciato ad assaporare il fascino della letteratura contemporanea; ho vinto il mio primo premio letterario in un concorso fra scuole superiori della Provincia di Macerata; ho tenuto la mia prima conferenza su “Ungaretti e la poesia contemporanea”. In quegli anni ho gettato le basi di quanto avrei poi realizzato come docente, scrittore e giornalista.
Molta acqua è passata sotto i ponti del Chienti e del Potenza, ognuno di noi ha vissuto altri spazi, altre voci, altre storie. E’ finito un secolo tormentato, ne è iniziato un altro e quasi non ce ne siamo accorti. L’Italia e il mondo hanno subito una radicale trasformazione e di quella lontana giovinezza rimane soltanto il ricordo: quel nostro semplice e appassionato cameratismo; quei “terribili” esami di maturità che sognavamo di notte; quella nostra voglia di vivere legata al fatto che avevamo pochissimo e quel poco andava assaporato lentamente e con gusto, consapevoli che la vita ci avrebbe ben presto cambiati. Infatti, negli anni Sessanta, vivevamo già in un tempo diverso e ognuno imboccava la propria strada nella famiglia, nella professione, nel mondo culturale e politico. Per tutti aveva inizio un’altra storia fatta di nuovi incontri, nuove amicizie, nuovi amori, nuove esperienze e quella nostra “epopea” liceale era desinata a rimanere custodita solo nelle nebbie dorate della memoria.

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