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L'opera in zona San paolo
L'opera in zona San paolo

Nicola Alessandrini racconta di sé, della sua arte e del senso di quel murale…

Nicola Alessandrini, artista e grafico maceratese, diplomato in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Macerata, ha realizzato nel 2018 i murales che possiamo trovare nella nostra San Severino, nella zona San Paolo. Abbiamo deciso di intervistarlo per conoscere meglio questa sua esperienza nella nostra città e il suo percorso artistico nel tempo.

Nicola, nel 2018 hai realizzato dei murales a San Severino (zona San Paolo) in occasione dell’iniziativa “Trasformami #cometumivuoi”. Puoi dirci quale era il tema dell’evento e il perché delle opere che hai realizzato?

«L’iniziativa Trasformami #cometumivuoi è stata organizzata dalle ragazze che gestiscono “Kindustria”, libreria di Matelica, e da altre associazioni culturali attive soprattutto nel territorio delle zone colpite dal terremoto. Era un progetto in cui si andavano a esplorare i luoghi terremotati, attraverso trekking urbani e attività culturali di differente provenienza artistica, che andassero a rileggere e reinterpretare quegli stessi luoghi con uno sguardo differente. Io sono stato chiamato per realizzare un murale tramite un laboratorio che avrebbe dovuto coinvolgere i partecipanti a uno di questi trekking volto alla scoperta di San Severino nelle sue zone colpite: nel workshop previsto avrei dato dei rudimenti di pittura murale ai presenti, cercando di spiegare i processi mentali che utilizzo nella realizzazione di un’opera murale. Purtroppo, il giorno in cui era previsto l’evento ha piovuto e così ho dipinto l’opera da solo nei fine settimana successivi».

Quindi, alla fine, il lavoro lo hai realizzato interamente da solo. Come è nata l’idea di rappresentare l’opera oggi presente?

«L’idea alla base era quella di interpretare in chiave quasi animistica, Leopardiana, i movimenti tellurici: una Madre Terra vista come un grosso rospo insensibile, in tre movimenti dove, da fermo, inizia a muoversi, compiendo ogni volta un piccolo passo, e ad ogni passo la casa che ha sulla schiena inizia a crollare per via dello spostamento. Un po’ come dire che il terremoto, di per sé, non è una cosa cattiva, fa parte della natura – il movimento tellurico – e rientra in quello che può succedere: la salvezza dell’uomo sta nella consapevolezza di essere indifesi nei confronti della natura stessa, edificare secondo giusti criteri, conoscere il proprio ambiente e saperne prevedere i mutamenti».

È da molto tempo che sei nel campo dell’arte, spaziando tra pittura, disegno e murali. Come si è evoluto il tuo percorso, dagli esordi, dopo il diploma in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Macerata, ad oggi?

«Dopo il diploma all’Accademia nel 2002 e una crisi personale e professionale durata qualche anno, ho iniziato a lavorare in campo sempre più nazionale e internazionale concentrando la mia ricerca soprattutto sul disegno e sull’arte urbana. Rispetto al periodo accademico, in cui, in qualche modo, avevo “rifiutato” l’arte figurativa in favore di una interpretazione più concettuale, negli ultimi anni ho ripreso in mano la pittura e il disegno, quasi per un bisogno intimo di ritorno al mezzo artigianale e manuale. Quasi per dare una forma ad un concetto, rendere pregnante, pesante, faticosa l’idea pura. Dalla collaborazione con ambienti e gallerie che hanno sempre operato in ambienti “underground”, non ufficiali, è arrivata, piano piano, la possibilità di realizzare murales, andando di fatto a completare una ricerca riguardo l’arte pubblica, non museale, relazionale che da sempre mi aveva interessato, pur in forme differenti».

Agli eventi e mostre, hai sempre affiancato il mestiere di grafico e disegnatore nelle aziende. Quanto il lavoro all’interno di tali realtà influenza la tua arte e quanto la tua arte si riversa sul lavoro aziendale?

«È un continuo rapporto di conflitto e reciproca influenza. È servito, innanzitutto, per dare un valore vero al tempo da dedicare alla mia ricerca personale: la libertà di gestione del tempo che avevo da studente o da “artista-disoccupato a tempo pieno” era sicuramente meno densa e meno fruttuosa di ora, in cui ogni opera, ogni ricerca è frutto di una lotta, di uno strenuo bisogno. A livello artistico, la grafica e la pittura hanno in comune la gestione di equilibri e di forma nello spazio: lavorando con la grafica ho appreso come il canone e la regola siano importanti nell’organizzazione formale di un’opera; con la pittura ho imparato a sovvertire e far mie quelle stesse regole».

Quali artisti hanno influenzato maggiormente il tuo stile? Quali sono le tematiche principali al centro delle tue opere?

«Tantissimi e sempre. Soprattutto in questo periodo, in cui è impossibile non fruire immagini, è normale ricevere influenze iconografiche continuamente. Sono tra l’altro un acquirente compulsivo di libri d’arte: mi piace però avere una gestione libera del ricordo, una evocazione delle influenze che accumulo nel tempo, piuttosto che una conoscenza enciclopedica. Sono anche piuttosto onnivoro in materia, non soffermandomi in epoche o stili particolari, facendo molta ricerca anche attorno ad autori molto giovani e semi-sconosciuti. Delle volte, rimango più affascinato da forme e linguaggi totalmente differenti da quelle che utilizzerei io: lo stupore di vedere come una persona riesce a rendere visibile una propria idea in un modo in cui io non farei».

Data la vastità della tua produzione, ti senti di più un pittore, uno “street artist”, un disegnatore o altro?

«Non saprei! Non ritengo molto importante la categorizzazione. Sicuramente, mi pongo nei confronti dell’opera in modo differente a secondo del mezzo utilizzato e dell’idea che ne è alla base! Quando lavoro ad un murale, l’approccio è differente rispetto a quando faccio un quadro: il rapportarsi alla realizzazione di un’opera pubblica implica una riflessione sul territorio, sullo spazio e sulle vite che lo abitano; mentre un lavoro da studio è sicuramente più intriso di echi personali, intimi, nonostante in ogni mia opera ci sia sempre un lato a-biografico e politico. Un murale dialoga, nel bene e nel male, con lo spazio esterno, è sotto gli occhi di tutti, ha una fruizione che spesso è casuale; un quadro ha invece impone un dialogo a tu per tu, la scelta divisione e di confronto. Se proprio dovessi scegliere una mezza definizione, la parola che mi piace di più fra quelle che proponi è “disegnatore”: implica proprio un mestiere, colui che disegna, meno evocativo ed aleatorio del termine “artista”».

La tua più recente esperienza artistica all’estero è stata in Tanzania. In cosa ha consistito?

«Ho partecipato a questo progetto insieme a Lisa Gelli (artista e compagna di Alessandrini; ndr) ed alla “Press Press” (studio di stampatori d’arte di Milano; ndr). Questa esperienza è l’inizio di un lavoro complesso a cui stiamo lavorando da parecchi mesi, in collaborazione con l’Ambasciata italiana in Tanzania e con dei musicisti italo-tanzaniani, Uhuru Republic. È un progetto musicale, nato lo scorso anno, in cui musicisti tanzaniani ed italiani hanno lavorato alla realizzazione di un disco collettivo, unendo sonorità occidentali con musica Swahili e Taraab. Con la stessa modalità di collaborazione e contaminazione siamo stati chiamati dall’Ambasciata Italiana a lavorare con alcuni artisti tanzaniani presso il centro di produzione artistica “Nafasi” di Dar es Salaam. Abbiamo lavorato insieme a loro con lo scopo di realizzare, in loco, una mostra. Successivamente, raccoglieremo le immagini prodotte in questo laboratorio per realizzare un libro d’arte che vedrà la luce insieme all’uscita del disco: due progetti singoli, disco e libro, e complementari, per mescolare forme artistiche tanzaniana ed italiane. Vorremmo presentare il lavoro finale per primavera, durante il RATATÀ festival 2020 (Festival di illustrazione, fumetto ed editoria indipendente a Macerata; ndr), e in tour per tutta l’Italia».

In Italia, il tuo più recente lavoro è stato a Marzabotto, settembre scorso. Raccontaci qualcosa in merito.

«Il murale, realizzato sempre a quattro mani con Lisa, si inserisce all’interno del progetto “Pennelli ribelli”, organizzato dall’artista Andrea Casciu, insieme a dei ragazzi di Marzabotto e Bologna. Vengono chiamati artisti, a livello nazionale ed internazionale, per lavorare intorno alla figura di Mario Musolesi, uno dei capi partigiani della zona di Marzabotto, ucciso durante la Resistenza e chiamato “Il Lupo”. Gli interventi artistici sono tutti incentrati sulla sua figura e sulla strage ad opera delle truppe Naziste e Fasciste avvenute a Marzabotto e nelle zone limitrofe. Il nostro lavoro è stato fortemente suggestionato dalla precedente esperienza in Africa: una ricerca di segno capace di unire ed evocare due realtà così distanti. L’immagine rappresentata è un lupo che si lecca una ferita: un lupo non disegnato, ma “ritagliato” dal muro, “evocato” dal fondale, dal contesto; come per dire che per essere partigiano, per assumere una posizione di parte è molto importante comprendere e reagire all’ambiente in cui ti trovi. Non a caso, l’unica parte ben particolareggiata è la testa del lupo: il pensiero rivoluzionario e lucido che decreta chi siamo, che ci spinge all’azione ed alla reazione».

Per quanto riguarda i progetti futuri, cosa c’è in porto?

«Ho vari appuntamenti legati a laboratori e murales, in tutta Italia da qui alla primavera. Sto lavorando ad un soggetto per un muro ad Avignone per maggio 2020 e insieme a Lisa stiamo lavorando per una doppia personale a Bologna durante Arte Fiera di Bologna alla Galleria Portanova12. Altro impegno importante è la preparazione del RATATÀ 2020».

Silvio Gobbi

Centro Medico Blu Gallery