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La casa di Jack (Matt Dillon)
La casa di Jack (Matt Dillon)

La recensione. L’infernale discesa verso “La casa di Jack”

Jack (Matt Dillon) è un killer psicopatico che nell’arco di dodici anni ha ucciso più di sessanta persone. Racconta la sua storia ad un personaggio misterioso, Verge (Bruno Ganz), focalizzandosi su cinque omicidi principali, definiti come “incidenti”. Jack è un ingegnere sociopatico che voleva essere un architetto. Come molti assassini è sadico, non prova empatia, e giustifica continuamente le proprie malefatte, arrivando all’estremo compiacimento: per lui, ogni omicidio è un’opera d’arte. Il dialogo tra i due prosegue, di omicidio in omicidio: Jack celebra la sua violenta visione e prassi di vita, Verge lo redarguisce, mentre i due si addentrano in uno dei più profondi inferni mai visti. E quando si parla di inferni, Lars von Trier è il migliore. Il regista danese infarcisce La casa di Jack (The House That Jack Built) con fitte analogie e dialoghi serrati, realizzando un’opera nel solco del proprio pensiero: l’innata meschinità del genere umano, capace di compiere soltanto le peggiori nefandezze. Verge e Jack, protagonisti di questo violento e psicologico dramma, sono le proiezioni del regista: lo yin e lo yang del suo Io, della sua poetica. Verge, il virtuoso, la “luce”, colui che definisce l’arte come rappresentazione di Dio, dell’amore e dell’armonia; Jack, colui che vive tra gli uomini, che ritiene l’arte un mezzo di decomposizione, di rappresentazione attraverso il dolore e la morte. Per Jack l’assassinio è un’architettura: una costruzione che si affina e si struttura nel tempo (con tanto di citazioni alle cattedrali gotiche e alla “teoria del valore delle rovine” dell’architetto nazista Albert Speer); Jack vede l’oscurità della luce, il negativo della luminosità: quel lato tetro spesso nascosto ai nostri occhi, ma presente ed ineliminabile. Il dibattito tra i due prosegue: Verge si erge a censore, imponendo modelli morali, richiamandosi a Dio e alla religione, mentre Jack condanna i limiti della moralità, asserendo che «la religione ha rovinato gli uomini perché il tuo Dio fa rinnegare la tigre che è in loro, trasformandoli in schiavi, troppo vergognosi per ammetterlo». Accompagnati dalla musica di David Bowie e dall’inconfondibile pianoforte di Glenn Gould, scendiamo lungo questo infernale ed intricato cammino all’interno della psiche del regista: una mente contorta, che vede il proprio lavoro come una continua costruzione e distruzione; una costante prassi di nascita e morte atta alla creazione di lavori iconici ed eterni. L’artista (o l’assassino, in questo caso) deve creare delle icone, paurose e mostruose come i dittatori: Jack (o Mister Sophistication, come si fa chiamare) è il von Trier dei killer, e come un regista organizza le sue uccisioni in modo da renderle uniche ed inconfondibili, come un film d’autore. Per l’ennesima volta, von Trier sconvolge il pubblico con un prodotto della sua drastica visione. Non ha mai nascosto le sue viscerali ossessioni ed idee, è stato condannato dalla censura: ha provocato, sempre e comunque. Questa è una sua costante: infastidire chi pensa che l’arte debba solo essere appagante e positiva. Uno sfregio al buon gusto, con grande precisione tecnica: l’utilizzo della camera a mano (ereditato dall’ormai storico manifesto cinematografico Dogma 95) caratterizza lo stile diretto del regista. La ferocia dell’inquadratura, la velocità dei movimenti: netti, puliti, sincopati e meticolosi come il killer (un eccellente Matt Dillon), Lars fa della regia un’arma perfetta per trasgredire, realizzando questa pellicola dalla visione feroce e pregna di scene icastiche. Con La casa di Jack, lo spregiudicato regista sintetizza il proprio menefreghismo nei confronti della serenità del pubblico. Giusta o sbagliata che sia, ogni autore deve portare avanti la propria visione, e, come fa dire a Jack: «Un artista deve essere cinico, e non deve preoccuparsi del benessere degli esseri umani e degli Dei».

Silvio Gobbi

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