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La recensione: “First Man”, il silenzio dell’infinito

Tra il 20 ed il 21 luglio del 1969, Neil Armstrong mise piede, per primo nella storia dell’umanità, sulla luna. Storica la sua frase: «Un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità». Fu un evento spartiacque. Quel giorno d’estate il mondo intero mutò: l’impensabile divenne possibile. Da quel momento «l’uomo si è proiettato verso approdi ignoti», scrisse in merito Oriana Fallaci. Dietro a quel successo, stava un lungo impegno da parte di Armstrong e di tutta la sua equipe. Ingegnere, egli venne coinvolto dalla NASA per le missioni spaziali. Erano anni concitati per gli Stati Uniti: l’Unione Sovietica era avanti nell’esplorazione dello spazio e gli States temevano un totale controllo russo, con l’inevitabile indebolimento della nazione americana. Così il governo finanziò la rincorsa allo spazio. Servendosi di scienziati più appassionati alla questione scientifica che a quella politico-strategica, gli americani lavorarono duramente per poter atterrare, per primi, sulla luna. Ma le vicende di Armstrong non filarono lisce. La vita di Neil fu dura in quegli anni: molto impegno, tanti fallimenti, altrettanti rischi, tensioni e problemi al lavoro come in famiglia. Non ne andava una dritta. Ma la strada del successo deve essere lastricata da insuccessi: senza penare, non si raggiunge nulla. La silenziosa e costante tenacia di Armstrong fu il suo punto di forza: andò avanti, sapendo che il fallimento era sempre in agguato. La tempra lo aiutò a non cedere, sostenuto da una moglie decisa, paziente e non assente. Neil Armstrong non mirava a diventare un eroe, voleva soltanto raggiungere il suo obiettivo.

Tutto ciò è raccontato in First Man, diretto da Damien Chazelle e sceneggiato da Josh Singer (presentato in concorso all’ultima edizione della Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia). I fatti (tratti dalla biografia ufficiale di Armstrong, First Man: The Life of Neil A. Armstrong, scritta da James R. Hansen) sono narrati in maniera esemplare. Non c’è retorica: l’agiografia è completamente assente; l’astronauta più famoso della storia è rappresentato con tutti i suoi problemi e difetti (pienamente umano). La regia di Chazelle è pregevole: non ci sono i roboanti effetti speciali a cui siamo abituati, sono ben dosati a seconda della situazione, senza trascendere nella spettacolarità. Ogni scena è realizzata con precisione, senza sbavature. Non ci sono troppe battute, il silenzio spesso fa da protagonista. Negli occhi dei nostri astronauti, nel loro afono stupore, possiamo leggere tutte le emozioni che mille parole non potrebbero mai descrivere. Chazelle, sicuro di sé, utilizza il silenzio senza paura: dal doloroso mutismo di Neil, causato dalla morte prematura della figlia, al teso silenzio tra compagni di viaggio, la silenziosità è la grande protagonista e voce narrante di First Man. Nello spazio non c’è aria, non ci sono suoni: il silenzio è la sua vera lingua. Quel «silenzio di Dio» che turbava il cavaliere Block, protagonista de Il settimo sigillo (Ingmar Bergman, 1957) è la voce di Neil, quel suono non udibile, ma tutt’altro che muto, da lui cercato per anni, con duro lavoro e sacrifici. L’ha trovato lassù, sulle mute e deserte superfici lunari. Come Astolfo recuperò il senno di Orlando sulla luna, il nostro Armstrong, nel compiere il «grande balzo per l’umanità», recupera se stesso. Nelle cavità lunari, i fantasmi del passato svaniscono, proiettando lui stesso e l’umanità intera in una nuova era: l’era dell’infinito.

Silvio Gobbi

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