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L'uomo che uccise Don Chisciotte
L'uomo che uccise Don Chisciotte

“L’uomo che uccise Don Chisciotte”: Terry Gilliam, il Miguel de Cervantes del cinema

Spagna. Paesaggio arido, aperto, ricco di rocce e sparuta vegetazione. Una troupe sta girando un video, ma a vuoto: il geniale regista e consulente pubblicitario, Toby Grisoni (Adam Driver) è un genio apatico, ormai bloccato. Non riesce a smuovere la situazione, traccheggia tra il nulla e le sveltine con la donna del capo. Una sera, il regista trova una copia pirata del suo film di laurea, ispirato alla storia di Don Chisciotte, girato in Spagna, con gente del posto, anni prima. Stimolato dalla visione di quel suo vecchio lavoro, Toby decide di recarsi nel villaggio delle riprese. Lì scopre che molte cose sono cambiate dai tempi del suo film: la giovane interprete Angelica (la magnetica Joana Ribeiro) ha lasciato il paese per seguire una fallimentare carriera nel mondo del cinema ed il vecchio calzolaio Javier (un eccellente Jonathan Pryce), interprete di Don Chisciotte, ha completamente perso il senno e vive credendo di essere il protagonista del romanzo di Miguel de Cervantes. Quando Toby incontra il folle Javier, quest’ultimo scambia il regista per Sancho Panza, e lo trascina in una serie di crescenti peripezie, dove realtà e immaginazione si confondono di continuo. In questo folle peregrinare, Toby incontra Angelica, la quale è ora legata ad un uomo losco e violento. Alla fine, tutti i personaggi si ritrovano a vivere un epilogo barocco, ritmato, iperbolico, dove la commedia si scioglie nel dramma e nell’amarezza: dove la pazzia, inizialmente derisa, ne esce nobilitata, apparendo come l’unico baluardo per difendere la lealtà d’animo.
L’uomo che uccise Don Chisciotte, ultima fatica di Terry Gilliam (e “fatica” è il termine giusto, dato che il progetto è stato in cantiere per più di venti anni) è un’opera che cattura per la sua complessità e visionarietà. Dopo un inizio un po’ statico, il film si addentra in una vicenda sempre più intricata e rocambolesca, degna dell’hidalgo picaresco più famoso della storia della letteratura. Follia e visione, ma anche corruzione e disincanto: in questa pellicola, Gilliam mette tutto se stesso, concentrando temi e stili dei suoi precedenti lavori (sentiamo l’eco di pellicole come Brazil). Toby è un ingranaggio del malato mondo del cinema, fatto di produttori spietati al servizio di finanziatori kitsch, ignoranti e prepotenti. Nell’ultima parte del film, Gilliam concentra la sua acredine ed il suo livore verso questa disgustosa realtà, dove chi è di animo buono ha solamente due alternative: essere sfruttato (come Angelica), o impazzire e vivere una folle vita (come quella di Javier). Toby matura: le deformanti inquadrature da grandangolo sottolineano la tensione e la crescente distanza del protagonista dai vecchi amici e colleghi. Gilliam non cede al film didascalico di denuncia, ma usa la sua innegabile fantasia e tecnica per creare una gigantesca metafora della sua vita ed esperienza, al limite della follia. E non esiste figura più adatta di Don Chisciotte per rappresentare la follia. La pazzia come rifugio da una realtà meschina e immodificabile. Un pazzo genuino, senza doppi fini, il cavaliere di de Cervantes è l’archetipo delle lotte sincere, ma senza speranze, quelle che vanno inevitabilmente a scontrarsi contro i “mulini a vento”. Meglio essere integerrimi ed impazzire, invece di corrompersi ed adattarsi ad un mondo ingiusto, questo ci insegna il più famoso cavaliere della Mancha. E ciò dice anche Gilliam, regista di frontiera, hidalgo della cinepresa, spesso in lotta con la grande produzione. L’autore spagnolo ci ha donato il suo eterno El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha, il regista americano ha dimostrato, con L’uomo che uccise Don Chisciotte, che, ancora oggi, la lotta contro gli ingiusti “mulini a vento” non è finita, e che soltanto la “pazzia” può tenerci in vita rimanendo fedeli a noi stessi.

Silvio Gobbi

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