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La recensione: “Revenge”, ritorno al pulp!

Jen (Matilda Lutz) è una giovane che ha una relazione segreta con il ricco Richard (Kevin Janssens). I due si trovano in una villa nel deserto, per trascorrere dei giorni di sesso e passione. Ad un certo punto, arrivano due amici e colleghi di Richard, Stan (Vincent Colombe) e Dimitri (Guillaume Bouchède), con un giorno di anticipo rispetto al previsto e scoprono la relazione clandestina tra i due. Poco male, Stan e Dimitri hanno tutto fuorché una morale e si interessano fin da subito alla bella Jen, tanto che Stan arriva a violentare la ragazza. La giovane, traumatizzata, è ulteriormente delusa dall’atteggiamento di Richard, il quale cerca di difendere l’amico e di comprare il silenzio di Jen con del denaro. La ragazza fugge per denunciare l’accaduto, ed i tre uomini la inseguono, cercando di ucciderla gettandola da un dirupo. Ma lei sopravvive alla caduta, si rimette in piedi con un’assurda forza sovrumana per vendicarsi di ognuno dei suoi tre aguzzini, in una narrazione dalla visione esagerata, pulp ed esplosiva.
Revenge, della regista francese Coralie Fargeat, è un film che cattura l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine. Finalmente una donna racconta una storia di “rape and revenge”, di stupro e vendetta: pulp fino al midollo, con scene e sequenze sfrenate. La regista trasforma la bambolina Jen, all’inizio capace solo di digitare sul suo smartphone, in una donna agguerrita degna di Russ Meyer. Lo stupro è la chiave di volta della storia. Fino a prima della violenza, il film è girato come se fosse un grande videoclip: montaggio serrato ed alternato con parecchie inquadrature provocanti di Matilda Lutz; il tutto è volto ad esaltare la sensualità e la passione tra Jen e Richard. Dopo lo stupro, il virtuosismo tecnico si acuisce sempre di più e la violenza diventa la vera protagonista: passiamo da Eros a Thanatos in un attimo. Da Barbie, Jen diventa una Lara Croft che, scalza nel deserto, piena di lividi e cicatrici mortali, va alla ricerca dei suoi aguzzini. Come la Sposa/Black Mamba (Uma Thurman in Kill Bill), Jen vuole solo vendetta: non pronuncia più una parola, va alla ricerca dei tre porci per poterli giustiziare. Ha visto che le parole non sono servite per avere giustizia e decide di passare alla violenza, perché la forza è l’unica cosa che i tre uomini (anzi, le tre bestie) possono capire. L’efficacia di questo film è nei numerosi rimandi e nell’ottima tecnica. Le citazioni, volute e non, sono veramente un’infinità: ritroviamo l’eco di Russ Meyer, Quentin Tarantino, la violenza delle pellicole di Eli Roth e di molti altri registi. Inoltre è forte il rimando ai film del genere “exploitation” (caratterizzati per l’esibizione esplicita di sesso e violenza), come L’ultima casa a sinistra (Wes Craven, 1972), Non violentate Jennifer (Meir Zarchi, 1978) e La casa sperduta nel parco (Ruggero Deodato, 1980). La regista ripercorre, con stile e bravura, tutte le maggiori caratteristiche di questi due generi cinematografici (il “rape and revenge” ed “exploitation”, formalmente distinti, ma spesso affini), storicamente ancorati ad autori maschili: la pellicola della Fargeat non è un’accozzaglia di citazioni scontate, ma una riuscita reinterpretazione di stili e stilemi di due generi cult. Grazie anche ad una padronanza tecnica mostruosa, Revenge è un prodotto veloce e dinamico che non annoia mai: la regia accende l’adrenalina dello spettatore e fa venire il fiatone, come se fossimo noi nell’azione (esemplare è la frenetica sequenza finale, nella casa con Jen e Richard). La regista racconta, con una lucida rabbia, la situazione delle donne, viste (ancora oggi) come oggetti da molti uomini come Richard. Uomini aberranti che considerano la donna un qualcosa che si può comprare con il denaro, capaci solo di vivere con violenza e
possessione le relazioni d’amore. Per loro, Jen ha solo la vagina, credono che sia stupida e superficiale, senza sentimenti. Convinti che lei sia l’ennesima bamboletta, giocano come vogliono con il suo corpo. Credono di averla mortificata, ammansita ed uccisa. Invece no. Jen rinasce dalla morte, trasformandosi in una donna determinata e spietata. Una guerriera, una femminista pulp, sporca ed imbrattata di sangue che non fugge via spaventata dall’orrore, ma lo combatte, fino allo stremo.

Silvio Gobbi

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