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"Dogman", di Matteo Garrone
"Dogman", di Matteo Garrone

La recensione: “Dogman”, la violenza senza scampo

Una periferia come tante: sciatta, abbandonata, anonima. Poche persone circolano, poche attività commerciali arrancano e vanno avanti giorno per giorno. Non c’è nulla da dire, nulla da fare: tra omertà e silenzi, la delinquenza in quei luoghi perpetua le proprie attività criminali, tra furti e spacci di droga. Il tempo prosegue nel suo statico non procedere: per chi vive quelle realtà, la vita non va mai né avanti né indietro, la staticità è siderale. Marcello (Marcello Fonte) è uno dei membri di questa comunità sospesa: lavora come toelettatore di cani in questo quartiere di periferia. La sua vita è modesta, ama il suo lavoro e adora la sua unica figlia, con la quale passa più tempo possibile. Il suo equilibrio è costantemente minacciato dalla presenza di un delinquente del luogo, Simoncino (Edoardo Pesce), un ex pugile che spadroneggia nel quartiere. Questo criminale cocainomane prende di mira Marcello e lo sfrutta per via della sua remissività. Simoncino abusa sempre di più della pazienza di Marcello, fino a raggiungere un punto di non ritorno, tale da far scattare nel docile toelettatore un moto di vendetta agghiacciante. Lo sviluppo della storia è di una asciuttezza strabiliante: le inquadrature sono “semplici”, non c’è alcun artificio tecnico roboante. Questa semplicità e questa asciuttezza non sono il sinonimo di uno stile anonimo, ma sono pregne di autorialità. L’impronta del regista è diretta, schietta, come è la storia da lui narrata. L’atmosfera della pellicola è pervasa da una costante atmosfera “grigia”. I colori dell’intera ambientazione sono caratterizzati da una prevalente patina grigia, la quale fortifica il senso di marcio profondo, l’inquietante e mortifera oscurità che possiede l’anima di quel mondo; una realtà scomoda, che nessuno vuole vedere, ma che c’è e corre parallelamente al cosiddetto “mondo civile”. La vicenda narrata è potente. La sceneggiatura è ispirata ad un vero fatto di cronaca, un delitto compiuto dal “Canaro della Magliana”. Pietro De Negri, detto “er Canaro” (perché toelettatore di cani), uccise, nel 1988, l’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci. De Negri e Ricci organizzarono una rapina: il Canaro venne catturato e scontò la prigionia, mentre il suo complice si salvò e dilapidò l’intero bottino. De Negri, una volta uscito di prigione, decise di farla pagare al suo complice, attirandolo in una trappola per ucciderlo efferatamente. Ma Dogman di Matteo Garrone prende solo spunto da questo tragico fatto di cronaca per creare un’opera nuova, che sfrutta la realtà dei fatti per andare oltre. Il regista utilizza questa base “realista” per narrare un’opera dove la solitudine è la vera protagonista. Tutti i personaggi sono soli, abbandonati alla loro stessa miseria, e nessuno di loro può uscire dalla propria condizione: non si può migliorare, non si può guarire da questo male. La loro condizione esistenziale è immutabile: al massimo, si può solamente cercare di soffrire il meno possibile, di sopravvivere. Marcello non ha nessuno, ha solo il suo amore per i cani e per sua figlia. Il resto del mondo gli è precluso, nessuno della periferia gli vuole veramente bene (perché la periferia non ama nessuno). L’ambiente descritto da Garrone è defunto, completamente sterile: nulla può innestare la vita in quel non-luogo. La rappresentazione è degna delle periferie del nostro storico cinema neorealista: pellicole pienamente intrise di dramma, dove la vitalità del popolo ed il suo spirito erano totalmente sommersi dalla miseria (una miseria, di tanto in tanto, lenita da un’effimera ironia degli stessi subalterni nei confronti della vita). Il lungometraggio in questione segue questa scia drammatica: Marcello, pur non essendo un povero in senso assoluto, conduce lo stesso una vita misera. Un’esistenza sciagurata, dettata dall’ambiente dal quale non può uscire. Egli è condannato a questa vita violenta e solitaria, non c’è via di scampo. Il tempo trascorre, passando da una violenza ad un’altra: la delinquenza chiama altra delinquenza, morte chiama morte. Quest’ultima opera di Garrone (in concorso alla 71° edizione del Festival di Cannes, 2018) è una pellicola aspra, scoraggiante per la realtà descritta, dove l’autore dimostra una durezza, un’incisività ed una forza autoriale degne di nota.

Silvio Gobbi

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