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Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Tre manifesti a Ebbing, Missouri

‘Tre manifesti a Ebbing, Missouri’: un dramma senza retorica

“Stuprata e uccisa”; “Giovane ragazza violentata dal branco”; “Donna seviziata a morte dal violento marito” eccetera. Quotidianamente, queste notizie riempiono i giornali e le televisioni di tutto il mondo. Spesso, i criminali subiscono pene lievi rispetto all’efferato delitto commesso, o addirittura non vengono affatto presi: l’eventuale “assenza” di colpevoli strazia le vittime ulteriormente, in maniera parossistica. Queste storie passano su di noi, ci lasciano l’amaro e una rabbia indescrivibile. Specialmente se capita ad una persona che conosciamo, ad una ragazza che vediamo tutti i giorni, a nostra figlia. Questo è il dramma quotidiano di Mildred Hayes (un’ottima Frances McDormand), una donna la cui figlia è stata stuprata ed uccisa (per la precisione, “raped while dying”, cioè stuprata mentre moriva). La polizia locale non è riuscita, dopo un anno, a trovare il colpevole (o i colpevoli) del delitto, così Mildred decide di affittare tre manifesti sui quali stampare delle semplici, ma efficaci frasi, per denunciare lo stupro della figlia e lo stallo delle indagini della polizia (le frasi sono: “How come, chief Willoughby?”, “Still no arrests” e “Raped while dying”. Rispettivamente: “Come mai, sceriffo Willoughby?”, “Ancora nessun arresto” e “Stuprata mentre moriva”). Da lì, la vita di Mildred e della sua famiglia (già complessa), si complica ulteriormente, scatenando nella comunità reazioni di vario genere, favorevoli e contrarie. La storia non si sviluppa in maniera stereotipata: questo è uno dei maggiori pregi della pellicola in questione. Tutti i personaggi sono raffigurati buoni e cattivi, simpatici ed odiosi: umani, in una parola. Vengono rappresentati “interamente”, nella loro umanità: Mildred non ha alcuna aura eroica “hollywoodiana”, è devastata e afflitta da un dolore che la conduce ad una serie di azioni tanto ad effetto quanto caparbie e controproducenti. Idem lo sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelson): un uomo dall’aspetto duro, quasi menefreghista, ed invece estremamente vicino a Mildred e alla sua causa. Anche il sottoposto dello sceriffo, Dixon (Sam Rockwell), un uomo tarato che incarna il tipico poliziotto razzista degli stati del Sud degli USA, si trasforma nel corso della vicenda in maniera inaspettata, senza alcuna retorica né eroica rappresentazione. Il tema del riscatto, in questo film, non è costruito in maniera scontata: emergono nuovi aspetti di ogni personaggio in modo graduale, attraverso una maturazione non “invadente”, ma presente e ben congeniata. Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Martin McDonagh, 2017; regista noto per In Bruges – La coscienza dell’assassino, 2008) è una storia spietata, lineare, che procede lungo il suo dramma senza scordare l’essenza della vita: ovvero la presenza, indistinta e in continuo scambio, di gioia e dolore, di ironia e tristezza. All’interno del film, si percepisce perfettamente una costante presenza di ironia nelle situazioni più difficili ed una latente tristezza nei rari momenti “felici”. La trama si sviluppa senza intoppi, la regia è pulita e lineare: la camera segue e asseconda i personaggi. Non sono presenti virtuosismi tecnici, proprio perché non ce n’è alcun bisogno: è la storia a parlare da sé. Un lungometraggio che non pecca di retorica, che avrebbe meritato molti più riconoscimenti ufficiali (specialmente all’ultimo Festival di Venezia, dove avrebbe meritato il Leone d’oro), per la sua lampante qualità, che lungo il suo sviluppo «comicamente tragico» e «tragicamente comico» (Roberto Escobar, «Il Sole 24 Ore», 14 gennaio 2018) matura in un’opera dalla costruzione e dal contenuto originale, come poche altre in circolazione.

Silvio Gobbi

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