Home | Cultura | La recensione. “A Ciambra”: la vita in una comunità Rom
Euro Net San Severino Marche
A Ciambra
A Ciambra

La recensione. “A Ciambra”: la vita in una comunità Rom

Il film A Ciambra (2017; come produttore esecutivo figura il grande regista Martin Scorsese) di Jonas Carpignano, giovane regista italo-americano, è ambientato nella comunità Rom di Gioia Tauro chiamata, appunto, “Ciambra”. Il protagonista della vicenda è Pio, un adolescente che, per necessità e destino si ritrova, a causa dell’arresto del fratello e del padre, a rubare per guadagnare soldi per la famiglia, seguendo così le orme dei suoi parenti. La storia rappresenta una realtà marginale, un mondo ai confini dello Stato, estraneo ad esso, composto da molte delle classi subalterne dell’Italia contemporanea in stretto contatto tra di loro, come la mafia locale e la comunità di profughi africani (una comunità rappresentata in maniera troppo edulcorata e solidale, che può fuorviare lo spettatore: non vengono messe in risalto le rivalità interne ai vari gruppi africani, probabilmente per scelta del regista di non approfondire troppo un tema estraneo a quello centrale del film).
L’opera vuole rappresentare, tramite una storia di finzione, la vita di una comunità Rom. La pellicola può sembrare Neorealista, ma questo genere rimane nell’ombra, come un richiamo lontano: del Neorealismo ha soltanto la scelta di trattare un tema sociale, di mostrare al pubblico una realtà marginale e poco conosciuta. La grammatica filmica utilizzata, infatti, non appartiene a quella del Neorealismo “classico”: la scelta delle inquadrature, il montaggio, le differenti messe a fuoco dei vari soggetti in una scena, la presenza di musica extradiegetica e le sequenze oniriche ne fanno un film completamente aderente al cinema di finzione. L’unica scelta stilistica che fa avvicinare il lavoro di Carpignano di più al documentario, alla realtà, è la decisione di fare largo uso della macchina a mano: le scosse del movimento ci ricordano la spontaneità e l’immediatezza di un documentario, di una ripresa diretta degli avvenimenti.
La vita di Pio è dura, ma di una durezza asciutta, accettata senza essere vissuta tragicamente, condivisa da lui e della sua comunità: egli sa che il suo destino è lo stesso dei suoi parenti, non può sfuggirne. Tutti i membri della comunità conoscono i rischi di vivere in quella condizione, ma nessuno può farne a meno: la loro natura è ineluttabile. Il loro essere “fuori dallo Stato” è una condizione antropologica ed esistenziale incancellabile, che rimarrà così per sempre (almeno questo è ciò che il regista crede e vuole farci capire). E per confermare ciò, la figura del nonno di famiglia è emblematica: la scena iniziale del film, dove il nonno viene visto da giovane, solo, libero con il suo cavallo ha questo senso. Vuol farci vedere che tale comunità è libera fin dal passato remoto: Carpignano, inserendo questa scena, vuol far intendere allo spettatore che la voglia di autonomia, di “assenza di padroni” degli zingari è secolare e atavica. Questo spirito di indipendenza è ciò che l’anziano vuol far capire ed inculcare al giovane Pio, durante il loro breve dialogo: un discorso che funge da passaggio di testimone tra il nonno ed il nipote, il quale capirà e accetterà l’eredità dei suoi avi, ovvero la necessità di vivere senza padroni e di rispettare solo la propria famiglia/comunità. Successivamente Pio, dopo aver collaborato con il fratello Cosimo a dei furti, verrà accettato dalla componente maschile e “matura” della Ciambra, entrando così ufficialmente nel mondo dei Rom adulti. La scena finale è emblematica di questo passaggio: Pio vede da una parte i bambini che giocano e dell’altra il fratello con gli altri adulti. Il ragazzo sceglie quest’ultima, e segna così la sua definitiva maturazione. Mentre Pio cammina verso il gruppo di uomini, la camera mette a fuoco il sole, sfocando e “bruciando” tutto ciò che c’è intorno. Ciò può sembrare un errore di regia, ma, invece, tale scelta significa (in questo caso) una forma di “sacralizzazione” dell’evento: il sole/fuoco segna un passaggio sacro, “brucia” il lato infantile e sancisce definitivamente l’entrata del giovane Pio nel mondo dei suoi padri, dei suoi avi. In sintesi, è un buon film, che riesce a darci una visione di un popolo che tutti conosciamo solo nel suo aspetto esteriore, ma non in quello intimo. Senza santificare né condannare tale mondo, Carpignano ha realizzato una buona opera, utile a comprendere meglio (per chi ne fosse completamente a digiuno), in chiave narrativa e artistica, la vita interiore di tale comunità.

Silvio Gobbi

Centro Medico Blu Gallery