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Una scena del film "Il diritto di contare"
Una scena del film "Il diritto di contare"

“Il diritto di contare”, un film sotto la “Lente di lettura”

Con la recensione che di seguito pubblichiamo, Silvio Gobbi inizia una nuova collaborazione con “Il Settempedano”. E’ un giovane critico cinematografico di San Severino che cura un blog – “Lente di lettura”, uno spazio digitale dove leggere di cinema; https://lentedilettura.wordpress.com/ – ed è presente anche su Facebook con la pagina associata Lente di lettura

E’ stato proiettato al cinema-teatro Italia, in occasione della rassegna cinematografica collegata alla stagione teatrale della città, il film di Theodore Melfi Il diritto di contare (titolo originale Hidden figures, basato sul libro Hidden figures: The story of the African-American women who helped win the space race di Margot Lee Shetterly, 2016). La pellicola è una trasposizione biografica e romanzata della storia di Katherine Johnson (interpretata da Taraji P. Henson), un’eccellente matematica dipendente della NASA, figura fondamentale in importanti operazioni spaziali come quelle di John Glenn, Alan Shepard, dell’Apollo 11 e del programma Space Shuttle. Insieme alla Johnson, sono rappresentate le sue colleghe-amiche Dorothy Vaughan (Octavia Spencer), prima supervisore non ufficiale poi programmatrice dell’IBM 7090, e l’aspirante ingegnere Mary Jackson (Janelle Monáe). Tutte e tre sono indiscutibilmente intelligenti, ma hanno un problema di fondo: sono afro-americane e si trovano negli USA profondamente razzisti e segregazionisti dei primi anni Sessanta, l’epoca delle sempre più fitte proteste per l’emancipazione razziale guidate da Malcolm X e Martin Luther King. La pellicola mostra le varie vicissitudini che queste donne si trovano a dover affrontare per poter lavorare alla pari dei colleghi “bianchi”, senza essere giudicate in base al colore della loro pelle. Le protagoniste vivono in una società pienamente contraddittoria, dove l’uomo è così tecnologicamente evoluto da poter arrivare a conquistare lo spazio, ma che ancora giudica i propri simili in base all’etnia: egli ha superato il confine dell’atmosfera, ma è ancora frenato da quello della pelle. L’ingiustizia subita dalle nostre tre protagoniste è, purtroppo, una costante del genere umano, che si sposta, nel corso del tempo, da nazione a nazione, di popolazione in popolazione: ancora oggi, nel 2017, varie forme di sfruttamento e razzismo si ripresentano di continuo, in contesti diversi in tutto il mondo, con modalità differenti ma fini simili.

Fondamentalmente, questo è un film che vuole infondere speranza, che mira a rincuorare lo spettatore, sottolineando che, pur tra mille fallimenti, tutte le ingiustizie possono essere sanate, come è stato per le protagoniste del film, le quali verranno riconosciute per il loro valore dal “mondo bianco”. Il film in sé è gradevole, senza essere eccezionale (a tratti risulta più agiografico che biografico). Il prodotto si basa completamente sulla bravura del cast e sulla forza della storia narrata: la mano del regista è molto ridotta, perché l’obiettivo è quello di focalizzarsi sulla narrazione delle esperienze delle protagoniste, senza virtuosismi tecnici né alla regia né al montaggio.

Nel film abbonda la musica, come se il regista volesse (come accade in molti altri film d’oggi) per forza decidere, di volta in volta, i sentimenti che il pubblico deve provare ad ogni sequenza proiettata. La migliore scelta musicale è stata quella di inserire la versione di Ray Charles del brano Sticks and Stones (1960/61). L’espressione che fa da titolo deriva da un modo di dire che recita: “Sticks and stones may break my bones, but names can never hurt me” (letteralmente tradotto: bastoni e pietre possono rompere le mie ossa, ma le parole non mi faranno mai male). Quindi, nella cultura americana, l’espressione “sticks and stones” corrisponde al nostro “me ne frego”: è un suggerimento a non prendersela per gli insulti, a fregarsene dei maltrattamenti verbali che uno può subire. Incita ad andare avanti per la propria strada, rimanendo a testa alta fino in ultimo, per poter arrivare a cambiare ciò che non va, come fanno le nostre protagoniste. Tutto sommato è una pellicola ritmata e non noiosa, dato che le due ore abbondanti di durata scorrono bene senza mai far sbadigliare: è un film che, in maniera tutt’altro che viscerale, vuole lasciare qualcosa al pubblico, senza affaticarlo.

Silvio Gobbi

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