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Fotografia. I ritratti africani di Claudio Scarponi

La fotografia sta vivendo una trasformazione epocale, quella nata nel 1839 sta scomparendo per lasciare il posto a un fenomeno che gli studiosi chiamano per ora immagini che sono prodotte con telefoni cellulari, tablet, smartphone e iPhone, le quali costituiscono un’immensa colata iconica che ogni giorno si abbatte sul mondo. Facebook conteneva alcuni anni fa circa 250 milioni d’immagini, oggi le foto pubblicate potrebbero avere superato il triliardo. La piattaforma d’immagini Istagram, acquistata per un miliardo di dollari, aveva inizialmente 400 milioni di abitanti, attualmente sembra che se ne stiano entrando 80 milioni al giorno. Questo fiume d’immagini è formato per il settanta per cento da ritratti o meglio di autoritratti di gente per lo più sconosciuta che ti guarda e ti sorride senza comunicare un’emozione, una sensazione di partecipazione. Sono soprattutto dei giovani ad autorappresentarsi, quelli che costituiscono la photogeneration (la generazione del selfie). Siamo di fronte a una forma di un narcisismo di massa, a una masturbazione iconica planetaria, soprattutto quando si avverte il bisogno di esporre in modo gratuito e immotivato il proprio corpo nudo sia femminile sia maschile. Eppure i giovani con questo consumo esasperato della propria immagine cercano di comunicare qualcosa, tanto che lo psicanalista Miguel Benasayng ha coniato il termine tecno-subconscio per indicare questo desiderio di affermare “Io sono…io sono…io sono”, ritenendo che da questa dipendenza dei giovani dalle immagini autoscattate possa rappresentare una ibridazione della loro esistenza coni nuovi strumenti della tecnologia. Da questo stanno nascendo nuove forme di vita che gli adulti hanno difficoltà a capire, ma bisognerà vedere come questi giovani saranno in grado di sviluppare un loro modello di società, un loro modo di produrre e consumare cultura. Potrebbe trattarsi di una rivoluzione culturale senza precedenti secondo la quale l’atto del fotografare potrebbe diventare la forma più bella maneggevole del comunicare; per ora siamo di fronte a un’operazione conservatrice vissuta nel segno della banalità. Cadute le barriere della tecnologia, tutti sono diventati autori e distributori, clienti e consumatori, soggetti e vittime di se stessi, perché ci troviamo in una fase primitiva della comunicazione nella quale si conoscono lettere e vocali dell’alfabeto: è vero che sul piano del progresso non si torna indietro, ma potremmo perdere una grande occasione di fare della fotografia un linguaggio universale. Si spera che immagini valide possano ancora venire e che, passata l’ubriacatura iniziale, si ritorni a fotografare nel senso vero del termine, nel frattempo l’attesa è piena di rischi e si potrebbero commettere gravi errori tali da smarrire non solo il senso estetico ma la ragione stessa del fare fotografie. Infatti, per fotografare, non è sufficiente conoscere la tecnica (oggi perfetta) e le regole per usare le macchine, ma occorrono le motivazioni, le premesse progettuali, la capacità di assumersi il rischio di sbagliare per trasformare la realtà in informazione, in commento, in opera d’arte. Manca soprattutto la consapevolezza che le fotografie nascono dal pensiero dell’autore e non dal mezzo meccanico che decide in pochi secondi chi e come fotografare, che bisogna agire avendo in mente un progetto e una conoscenza del linguaggio fotografico. Ci sono oggi belle immagini mai volgari e senza errori, ma sono repliche sterilizzate, remake di cose già viste, che producono effetti accattivanti ma sono prive di una causa, perché è fondamentale sapere che “fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa” (Susan Sontag).
Eppure, mentre il mondo è dominato da un alfabeto universale costituito da immagini caotiche e irrazionali, mentre si fanno fotografie che non si stampano, non si selezionano, non si conservano, i grandi fotografi sono più conosciuti, le loro opere si conservano nei musei e nelle biblioteche, le mostre sono frequentate da un pubblico sempre più numeroso, si stampano più libri di fotografia, si moltiplicano i corsi e le scuole di fotografia, per cui siamo di fronte a dei segnali positivi. Claudio Scarponi, che si era fino a ora dedicato soprattutto al paesaggio, è stato profondamente segnato sul piano emotivo e sentimentale da questa esperienza africana, dalla quale è tornato con un migliaio di fotografie in cui ha cercato di cogliere alcuni aspetti umani, sociali e antropologici di quella complessa realtà che è l’Etiopia. Abbiamo deciso insieme di accantonare ogni altro tipo d’immagine per scegliere un genere fotografico ormai caduto quasi in disuso: il ritratto. Sono state selezionate immagini di giovani donne, di adolescenti e di bambini per puntare sulla forza rappresentativa e coinvolgente dei loro sguardi, mettendo in evidenza la capacità che avuto l’autore di cogliere l’attimo, di “rapire” un’espressione, un sorriso, un momento di malinconia o di stupire, insomma un valore umano capace di comunicare una qualche emozione. Si tratta d’immagini che vogliono trasmettere serenità e speranza non per ignorare la povertà, le malattie, l’analfabetismo, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la triste condizione della donna e dell’infanzia, le disparità economiche, tutte piaghe sociali e politiche di cui purtroppo l’Etiopia ha il primato negativo. Da un lato si voluto dare un segnale positivo, ricordando che in Africa cominciano a sorgere le prime industrie, a diffondersi il turismo, a nascere le prime strutture sanitarie, che esistono una letteratura, un cinema, un teatro, un’arte e una fotografia africane. Tutto questo non è ancora sufficiente, perché la strada da fare è ancora lunga, che bisogna abbandonare la logica della beneficenza, ma concentrare gli aiuti internazionali per portare in Africa conoscenze e tecnologie, scuole e ospedali, elettrodotti e vie di comunicazione. L’Occidente deve smetterla di sfruttare le risorse dei paesi poveri costruire il nostro benessere e di pagare dittatori corrotti per non lasciare nella miseria le popolazioni africane. Si tratta di un nostro dovere morale, ricordando che, quando Giovanni chiese informazioni sull’omo che predicava in Galilei, Gesù mando a dire al Battista che i ciechi vedevano, gli storpi camminavano, i muti parlavano, ma che soprattutto “ai poveri è annunciato il Vangelo” (Matteo 11-2-11).

Alberto Pellegrino

Il libro “Sguardi d’Etiopia” è disponibile in libreria 

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